
Nel 1980 il ministero dei Beni Culturali ha riconosciuto il cementificio di Alzano Lombardo come bene di interesse culturale e lo ha sottoposto a vincolo. Si, perché questa struttura rappresenta una parte importante dell’industria italiana: nasce nel 1883 e per 70 anni è stato il fiore all’occhiello della società Italcementi. È un monumento non solo per quello che ha rappresentato, ma anche per come è stato costruito: nella sua edificazione furono utilizzati quasi esclusivamente materiali che venivano prodotti dalla stessa (cemento grigio, cemento bianco, Portland e Grenoble a pronta presa).
La storia delle Officine Pesenti inizia nel 1883 grazie ai fratelli Carlo, Pietro, Cesare, Daniele e Augusto Pesenti (quest’ultimo già ricordato per
Villa Camilla). Il ruolo più importante però è senz’altro da attribuire a Cesare, perché fu lui, ingegnere di assoluto livello, a definire sul piano tecnico la costruzione della fabbrica, ma soprattutto fui lui a concepire il ciclo tecnologico produttivo basandosi sui modelli francesi e studiando (e migliorando) l’efficienza produttiva dei forni verticali più diffusi dell’epoca.
Il cementificio Pesenti è un documento importante e fondamentale della storia industriale italiana: fu l’unico cementificio a produrre il cemento naturale fino al 1966 (anno di spegnimento dei forni). Nel tempo si cercò di ammodernarlo fin dove fu possibile per tenere il passo con le nuove tecnologie, ma per come era stato pensato e costruito (in modo dichiaratamente sperimentale da Cesare Pesenti che testò sulla struttura la qualità e la durata della produzione) il cementificio era talmente grande e poco flessibile che l’unica soluzione possibile fu la chiusura definitiva. Da oltre 40 anni è un vero e proprio monumento, purtroppo non visitabile: qualcosa nell’ultimo decennio è stato organizzato, ma la pericolosità e il rischio crolli impediscono qualsiasi forma di turismo sicuro. Dobbiamo accontentarci dell’opera di pochi valorosi e temerari amanti dell’urbex che testimoniano con foto e video un pezzo importante della storia industriale, e non solo, del nostro paese.





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Ci sono luoghi abbandonati che si riempiono di fascino, vita e lasciano a bocca aperta. Poi ci sono invece location meno interessanti dal punto di vista emozionale, ma che io ritengo altrettanto importanti dal punto di vista fotografico e, perché no, anche storico. L’Ex Autoparco Militare di Cambiano fa sicuramente parte di questa seconda categoria di esplorazioni: perché se da un lato non nasconde nulla di tangibile, di immediatamente riconducibile all’uomo, dall’altro lato mette in mostra una bellezza e una fotogenia da non sottovalutare. Questo enorme spazio (oggi di proprietà del demanio) nasce come campo d’aviazione a inizio Novecento, per poi essere trasformato in parco per veicoli militari negli anni della Guerra Fredda. Quindi il declino, specialmente negli ultimi anni: quell’enorme area abbandonata rappresenta un pezzo di storia di Cambiano che non si può e non si deve dimenticare. Torna ciclicamente nelle cronache dei giornali locali, ma rimane immobile e abbandonato da tempo. E’ una memoria assolutamente da conservare cercando una nuova destinazione e una nuova vita.







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Non ho molte informazioni su questa piccola struttura industriale alle porte di Torino. Sicuramente si tratta di una vecchia fonderia dismessa ormai da tantissimi anni e adesso in mano agli artisti del graffito. Le uniche informazioni che si trovano in rete riguardano un rave party organizzato alla mezzanotte di sabato 12 marzo 2016 e concluso con l’intervento delle forze dell’ordine allertate dall’altissimo volume della musica e dalla quantità sospetta di autovetture parcheggiate di fronte all’ex fonderia. Il tutto si è concluso con 118 denunciati. Che poi in un posto del genere dedicarsi alla musica e al divertimento, magari dopo aver non solo bevuto, lo trovo abbastanza pericoloso: tutto l’edificio è pericolante e le scale non possono garantire standard di sicurezza adeguati. Non voglio parlare delle norme igienico-sanitarie. :-)



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Fortunato Postiglione è stato il fondatore della ILTE nel 1947, con sede in Corso Bramante a Torino. All’epoca si chiamava ancora Istituto del libro italiano S.r.l.. Fu trasformata in ILTE (Industria Libraria Tipografica Editrice) il 31 ottobre 1951 per iniziativa della Sip, la Società Italiana per l’Esercizio Telefonico, a capitali statali, che necessitava di una stamperia capace di soddisfare le esigenze dettate dalla produzione delle Pagine Gialle e degli elenchi telefonici per un’utenza costantemente in crescita come quella dell’Italia del secondo dopoguerra. Nel 1975 l’azienda venne trasferita nel più moderno impianto di Moncalieri e la via sul quale si affacciava il cancello di ingresso venne dedicata a Fortunato Postiglione. Il Gruppo, che annoverava nel 2008 un fatturato superiore a 194 milioni di euro e oltre 1000 dipendenti, negli anni successivi ha conosciuto una certa riduzione delle commesse in seguito alla crisi economica globale, venendo costretto a una sensibile riduzione del personale, sino al fallimento fra il 2015 e il 2017. Nel 2021 è uno scheletro vuoto che rischia di collassare su se stesso. Queste foto sono il frutto di 36 mesi di lavoro, detta così sembra brillante, ma in realtà è semplicemente il tempo trascorso fra la prima e l’ultima esplorazione: un’esplorazione iniziata all’alba e finita al tramonto di tre inverni dopo. Purtroppo non ero mai riuscito a completare fotograficamente l’intera (enorme) struttura e nello trascorrere del tempo mi sono perso sicuramente qualche ricordo e qualche cimelio. Ho deciso di pubblicare ben 63 foto e rappresentano solo una piccola parte di quello che oggi è Industria Libraria Tipografica Editrice: il Titano caduto, come viene definita da chi l’ha vissuta.






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Ci sono luoghi abbandonati che lo sono da talmente tanto tempo che ormai fanno parte del paesaggio. Diventa una caratteristica e gli abitanti della zona si dimenticano dell’esistenza, come se fosse naturale: perché quando sono nati quella struttura era già in decadenza, già inutilizzata, e diventa fisiologica la presenza. Eppure lo Zuccherificio di Spinetta Marengo non è proprio invisibile, anzi: occupa un’area dismessa di più di 82.000 metri quadri. Dopo varie vicissitudini venne abbandonato al suo destino nel 1980 e la produzione (con tutti i macchinari) trasferita a Casei Gerola. Oggi è rimasto quasi nulla, i muri, le rovine: l’unica parte interessante è il secondo piano dove si trovava quello che probabilmente era una specie di laboratorio e dove sono ancora presenti i piani di lavoro ciascuno dotato del proprio lavello: almeno quello che ne rimane. Da oltre 40 anni si parla di recupero, nel 2006 era entrato a far parte di un progetto interessante di riqualificazione e l’area dello zuccherificio si sarebbe dovuta trasformare in un centro commerciale ad opera di Coop7 ed Esselunga.
Il centro commerciale si fa, poco distante, ma intanto nel 2008, grazie ai rilevamenti effettuati per la costruzione del centro commerciale, si scopre che le falde acquifere di tutta Spinetta Marengo
sono inquinate al massimo livello e bloccano i lavori di ampliamento; nel frattempo il progetto Coop7 ed Esselunga ha anche il tempo di fallire, viene salvato con l’intervento dello stato e finisce
nell’inchiesta “Alchemia” per sospetti legami con la ‘ndrangheta.
Il destino dello Zuccherificio purtroppo è segnato: rimane un enorme ricordo di architettura industriale del secolo scorso, un pezzo di storia del nostro paese destinato con il tempo a crollare su se stesso.





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