POSTED ON 9 Mar 2025 IN
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È passato un po’ di tempo dall’esplorazione che voglio raccontare oggi, ma è ancora ben impressa nella mia mente: forse perché ero da solo, una situazione che aumenta il grado di percezione dei miei sensi, ma che per fortuna mi capita di rado. Parcheggiai non troppo distante dal mio obbiettivo e mi guardai intorno: il sole stava sorgendo e presto sarebbe stato giorno. La location che volevo esplorare era davvero particolare: una una casa circondata da un piccolo boschetto e immersa nel nulla, in una posizione che oserei definire bizzarra. Per raggiungere il boschetto bisognava camminare in mezzo ai campi, in piena vista. Non ci pensai troppo, iniziai a percorrere la strada nella terra e, senza che nessuno si accorgesse di me, mi infilai nel bosco. Era mattino presto, troppo presto, quindi era difficile che qualcuno potesse essere sveglio a quell’ora e notare un tipo sospetto, con lo zaino e un treppiede ingombrante, camminare veloce nel nulla.
La porta era aperta. Il primo piano era completamente in disordine: foglie sul pavimento, libri sparsi, riviste, colori, tempere, cornici, una piccola follia creativa, segni e ricordi dell’artista che aveva vissuto lì. Salendo una scala molto stretta, arrivai al secondo piano. La cucina non nascondeva il suo senso di abbandono, disordinata e sporca, con l’intonaco che cadeva sul pavimento, ma piena di vita: c’erano oggetti da cucina in ordine quasi perfetto, una bellissima credenza, spezie, pentole appese, bicchieri e bottiglie di liquore sul tavolo, un’immagine di quotidianità interrotta.
Uscendo dalla cucina si scopre la stanza più interessante, la stanza che regala il nome alla location e che lascia quasi interdetti: Red Passion. E’ una camera da letto molto affascinante, con un letto a baldacchino semplicemente meraviglioso. Il colore dominante è un rosso vibrante, un rosso teatrale, quasi passionale. C’è un mobile sul fondo pieno di vestiti, una serie di oggetti sparsi, un crocifisso appeso alla parete e altri piccoli dettagli che rendono l’ambiente molto intrigante. E poi quel mappamondo, come un simbolo di quanto il pittore fosse legato a quella sua dimensione, come se quella stanza non fosse solo il suo rifugio, ma il suo mondo intero. Poco distante, sempre al secondo piano, c’è anche un bagno, decisamente devastato, con pochi oggetti rimasti, tra cui due spazzolini da denti, uno rosso e uno verde, malinconici nella loro solitudine.
Aveva consacrato l’intera vita all’arte, dipingeva e passeggiava nei dintorni di questo luogo sperso tra i campi della pianura padana. Nei suoi itinerari a piedi raccoglieva sassi, pezzi di tronco e assi e le usava per le sue opere, leggeva e dipingeva, solo il sole scandiva le sue giornate. Gli amici passavano a trovarlo, chissà se si sedevano tutti insieme nel giardino all’ombra degli alberi, tra i tulipani gialli meravigliosi che continuano a fiorire ancora oggi e che ci hanno accolti quando siamo arrivati fin qui. Le opere dell’artiste erano conosciute, erano esposte in molte gallerie d’arte, hanno vinto dei premi ma lui è sempre rimasto affezionato a questo piccolo paradiso e intanto inesorabile come per tutti è arrivata la vecchiaia e la morte. Sono quasi quindici anni che qui non abita più nessuno, nessuno dorme in questo imponente letto rosso, nessuno lascia più la sua traccia con i pennelli su quelle vecchie assi. I colori nei tubetti si sono pietrificati, i pennelli sono pieni di ragnatele. Tutto tace ora qui intorno e noi possiamo solo immaginare la tranquillità che deve aver assaporato chi ha abitato qui per anni, chissà se i suoi quadri raccontavano tutto questo suo piccolo mondo incantato…
Questa casa apparteneva a un pittore che ormai non c’è più, un pittore molto conosciuto che ha lasciato tracce della sua esistenza in ogni angolo. Si dice che non avesse mai lasciato questo posto, che la sua vita fosse stata scandita dalle camminate nei campi circostanti, nei suoi momenti di solitudine, nei suoi momenti di raccoglimento. Oggi, nonostante la casa sia in rovina, c’è ancora qualcosa di potente che rimane. La sua memoria non è andata persa, si è solo silenziata, in attesa di essere ricordata.













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POSTED ON 6 Mar 2025 IN
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Il Carnevale di Ivrea è conosciuto soprattutto per la Battaglia delle Arance, che sicuramente è l’evento più famoso e quello che si vede raccontare in televisione. Ma in realtà il Carnevale di Ivrea è molto più di questo e affonda le sue radici addirittura nell’anno 1194. Purtroppo, per motivi di tempo, non sono riuscito a catturare tutto e mi sono concentrato sulla Battaglia delle Arance, ma ci sono tante altre tradizioni e manifestazioni che meritano di essere raccontate. Ad esempio, una figura centrale del Carnevale è la Mugnaia, definita vezzosa, una donna che simboleggia la resistenza contro il tiranno. La Mugnaia nasce nel 1858 e si ispira a Violetta, un personaggio storico realmente esistito. Secondo la leggenda, Violetta -figlia di un mugnaio- uccise il tiranno tagliandogli la testa, dopo averlo fatto ubriacare, ribellandosi allo ius primae noctis (mito nato in Europa nel corso del secoli) imposto dal barone.
Poi c’è
la Preda in Dora, che si svolge la domenica mattina, quando viene lanciata una pietra nel fiume Dora. Questo gesto
segna simbolicamente l’inizio delle festività del Carnevale e si collega alla doppia distruzione del Castellazzo. Un’altra tradizione importante è la
Fagiolata Benefica del Castellazzo, che ho avuto modo di vedere velocemente. Durante questa festa, che si svolge fra sabato sera e domenica mattina, i fagioli vengono cucinati e distribuiti, mentre un grande calice di vino gira tra le persone. È
un momento di convivialità importante che fa parte delle celebrazioni almeno dal 1878. Infine, c’è lo Scarlo, che risale al 1300 ed è l’elemento più antico del Carnevale di Ivrea. Nel Medioevo la Festa dello Scarlo segnava
la fine dell’inverno e il risveglio della natura. È un alto palo rivestito di erica secca (bru) con in cima un tricolore che viene innalzato in ogni parrocchia e bruciato. Il Martedì sera nel magico momento dell’abbruciamento dello Scarlo
rivive la rivolta popolare, l’esecuzione del tiranno e l’incendio del Castellazzo, la libertà conquistata ed infine la morte del vecchio e la nascita del nuovo.
Purtroppo, come dicevo, non è facile riuscire a seguire tutte le manifestazioni che caratterizzano il Carnevale di Ivrea, soprattutto se non si è eporediesi. Sono arrivato domenica mattina e ho fatto un giro veloce in città per vedere l’allestimento: era talmente presto che ho rischiato mi chiedessero aiuto per scaricare le cassette, rigorosamente in legno, di arance. Non sono riuscito a visitare il Borghetto, un quartiere che mi affascina molto e dove comandano gli aranceri dei Tuchini, e mi sono perso anche la Preda in Dora, perché sono dovuto correre via per assistere alla preparazione del carro. Nonostante la fretta, ho avuto la fortuna di assistere all’arrivo del Generale, colui che dà il via ufficiale ai festeggiamenti, della vezzosa Mugnaia, del Podestà e di tutta la corte che accompagna i due protagonisti della sfilata.
La tradizione le dette l’appellativo di vezzosa, per indicarne la leggiadria e la grazia femminile, quindi vestita di bianco per indicarne la fedeltà e la purezza, ed interpretata, ogni anno, da una diversa cittadina eporediese, che dev’essere sposata, per ricordare lo stato di Violetta, seppur suo malgrado. Come eroina della rivolta inoltre, viene adornata col tricolore italiano, in riferimento alle rivoluzioni risorgimentali.
In quest’ultimo post ho raccolto un mix di foto, messe in ordine quasi casuale, che cercano di descrivere, anzi, di dare un’idea di una parte del Carnevale di Ivrea. Mi sarebbe piaciuto avere più tempo per dedicarmi anche agli eventi, definiamoli collaterali, non solo alla battaglia delle arance. Purtroppo, è difficile, ma non impossibile. Mi piacerebbe tornare, magari con più calma, per scoprire tutte le sfaccettature di questa straordinaria festa.










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POSTED ON 5 Mar 2025 IN
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Oggi voglio raccontarvi il vero carnevale storico di Ivrea, la sua essenza, portandovi al suo interno nel senso più vero del termine. La storia inizia nel 2012, la mia prima volta al Carnevale di Ivrea. Quel giorno scattai delle foto, come sempre, e fui contattato da uno dei membri di un carro, Nikhy, che mi invitò a tornare l’anno successivo per fotografare la sua squadra in azione. Nel 2013 purtroppo dovetti rimandare il mio ritorno, e poi rimandare ancora, e poi ancora. Quest’anno, dopo 13 anni, ho deciso di scrivere a Nikhy per chiedergli se l’invito fosse ancora valido. Mi ha risposto di sì, ha chiesto alla sua squadra (I Paladini di Via Palma) e abbiamo cominciato ad organizzarci.
Il 2 marzo, domenica, primo giorno di battaglia, mi sono presentato nella loro cascina, dove si incontrano prima di partire. È stata un’esperienza molto particolare e straniante. In cascina ho visto i cavalli (Hector e Ideal), il carro, e man mano ho visto arrivare i membri della squadra. Abbiamo mangiato insieme (alle undici) e ho cominciato a percepire una sensazione di ansia e di emozione, una tensione quasi palpabile. All’ora stabilita, i conducenti della pariglia, il baffuto Adriano, Valentina, Valeria e Francesco, hanno portato fuori i cavalli e hanno cominciato a prepararli. I ragazzi della squadra sono andati al punto di ritrovo, quando è arrivato il carro con i conducenti hanno caricato le arance (qui inizia il mio racconto fotografico) e, finalmente, siamo partiti verso Via Palestro, dove tutto prende forma.










Quando le pariglie si sono messe in fila ho cominciato a capire davvero cos’è il Carnevale di Ivrea. Le battute sono diminuite, i sorrisi sono diventati meno frequenti e la tensione è aumentata. Sono salito con loro sul carro e ho fatto una domanda precisa: “Siete emozionati?”. Mi hanno risposto di sì, che erano concentrati e che sentivano l’importanza dell’evento. In realtà non avevo bisogno di sentire la risposta, perché l’avevo già capito senza chiedere. Poco dopo Fernando, il capocarro, mi ha chiesto se volessi partecipare alla battaglia, rimanere sul carro con loro. All’inizio ho detto subito di no, istintivo, ma poi, pentito della mia risposta, ho cambiato idea. Avrei rischiato qualcosa rimanendo a bordo, ma ho pensato che si trattava un’emozione che si vive una volta sola nella vita e sarebbe stato un punto di ripresa fotografico non banale. Non capita tutti i giorni di salire su un carro al Carnevale di Ivrea, e quindi ho deciso di restare. Una pazzia, non troppo calcolata in realtà: avrei dovuto capirlo dalla reazione dei miei compagni di viaggio, ma ormai il dado era tratto.
Mi sono accorto subito che scattare foto in mezzo alla battaglia sarebbe stato praticamente impossibile, ma ho vissuto l’esperienza di essere lì. Ho sentito la battaglia, la lotta, l’adrenalina. Ho provato a sollevare la macchina fotografica, ma sono stato subito colpito da un’arancia. Ci sono due foto di quel momento, sono solo didascaliche e servono esclusivamente a dimostrare la mia presenza. A quel punto ho dovuto proteggere il mio zaino, perché le arance viaggiano veloci, si schiacciano al contatto con chi si trova sul carro e arrivano addosso come una spremuta. Ma nonostante tutto è stato un momento emozionante, pensavo che mi sarei pentito, e invece no. La battaglia è durata un tempo che mi è sembrato infinito (ma non ho visto molto). Poi, quando il carro è uscito dalla piazza, ci siamo fermati, perché il regolamento prevede che la battaglia si interrompa in quel momento. In realtà, non si smette del tutto, perché qualche pazzo scatenato continua a lanciare arance, ma dopo questo momento di follia, si torna amici. Chi ha lanciato le arance viene a salutare chi era sul carro, si stringono le mani e si riparte per la prossima piazza.














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POSTED ON 4 Mar 2025 IN
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Il Carnevale di Ivrea è un’esperienza fatta di tante sfaccettature ed emozioni, ma senza dubbio la più importante e conosciuta è la Battaglia delle Arance, che rappresenta il momento fondamentale della manifestazione. Raccontare il Carnevale di Ivrea significa partire proprio da questa battaglia, che è l’aspetto più sentito e simbolico dell’intero carnevale. Qui non ci sono maschere e costumi, c’è una tradizione forte costruita nel tempo: ad Ivrea si combatte, ma sempre sotto il segno dell’amicizia e del rispetto reciproco.
Ma come funziona? La battaglia coinvolge i lanciatori a piedi e quelli sui carri. I carri, che
sono 51 divisi in 34 pariglie e 17 tiri a quattro, seguono un percorso attraverso la città, passano per le piazze dove ci sono i lanciatori a piedi pronti a lanciare le arance verso di loro. È una battaglia cruenta e continua, un susseguirsi
di arance che volano e carri che avanzano. È difficile descrivere appieno l’atmosfera, perché chi non l’ha vissuta in prima persona fatica a percepirla davvero. Ci sono volti, emozioni, ed è un continuo passare
di momenti e immagini che restano impresse nella mente. Ciò che mi colpisce di più è il modo in cui i lanciatori sui carri scagliano le arance dall’alto, mentre le squadre di aranceri a piedi lanciano verso i carri.
È una battaglia senza sosta, un gioco di scontri epici e emozionanti, per certi versi anche cattivo. Il vantaggio di chi sta sui carri è quello di essere
protetto da una maschera, ma ci sono solo dieci persone per carro (con due conducenti) e vi posso garantire che arrivano al termine della
sfilata (perdonatemi il termine) davvero stremati e con le braccia stanchissime. Gli aranceri, invece, sono molti di più, possono fermarsi per riprendere fiato e ripartire, ma senza protezioni.
Non ci sono solo lanciatori, allo storico carnevale di Ivrea c’è anche un pubblico (biglietto di ingresso 15 euro) che ha la possibilità di nascondersi dietro le reti di protezione oppure rischiare e avvicinarsi vicino ai carri, dove la battaglia è molto violenta. Volendo si può anche lanciare e provare l’ebrezza di diventare aranceri per qualche secondo: ma attenzione, perché nel caso il rischio di una risposta è reale. Esiste uno strumento, il berretto frigio, un copricapo rosso che dovrebbe rappresentare la neutralità dello spettatore (prezzo minimo 6 euro, esistono diverse tipologie). In realtà, però, serve a poco, perché i carri combattono nelle vicinanze (il raggio di lotta intorno al carro è di pochi metri), ma le arance volano ovunque, senza esclusioni. Quando i carri passano, passano, e quando sparano, sparano, non c’è molta protezione a cui affidarsi. Ho scattato una foto che cattura questo sensazione. Ci sono una madre e una figlia, entrambe con il berretto frigio, accovacciate e che si proteggono a vicenda per cercare di evitare le arance in arrivo. Nonostante il pericolo imminente, entrambe ridono, divertite dalla situazione, ma allo stesso tempo sono terrorizzate dalla possibilità di essere colpite, magari anche in faccia. Questa immagine è splendida perché riesce a racchiudere in un solo scatto la gioia e la paura che caratterizzano questo incredibile carnevale.
Ho avuto la fortuna di passare un po’ di tempo su un carro, poi sono sceso a piedi. Ho preso un’arancia nell’occhio sinistro mentre fotografavo (con l’occhio chiuso non ho visto arrivare il proiettile), ma ho continuato a fotografare (e oggi ho l’occhio gonfio). Mi sono buttato dentro senza paura, rischiando anche qualcosa, ma senza il rischio finisce il divertimento. Alla fine ho scelto 53 scatti che penso possano rappresentare bene l’essenza di questa battaglia e del Carnevale di Ivrea. Domani voglio raccontare un’altra storia, un po’ più intima, ma per ora voglio partire proprio da questa battaglia. Spero che le mie foto riescano a trasmettere l’emozione e l’essenza di questo Carnevale incredibile e fantastico.


















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POSTED ON 24 Feb 2025 IN
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Ho chiamato questa location La chiesa di Conchiglie perché, al suo interno, si nasconde una piccola chiesetta interamente ricoperta di conchiglie. Quando l’ho vista sono rimasto sorpreso. Non ha alcun senso, non esiste nulla di simile al mondo (che io sappia), eppure lì, nel cuore di quel luogo, c’era questa piccola perla (e forse qualche ostrica). Ogni angolo, ogni parete era decorata con conchiglie, un’opera davvero fuori dal comune. L’odore era molto intenso, decisamente poco piacevole: c’erano tanti insetti, mosche e vespe che volavano ovunque. Fotografare l’interno non è stato possibile, non ho avuto il coraggio di entrare, infatti, le immagini che ho scattato sono tutte dall’esterno, perché dentro l’aria era irrespirabile. Ma quel luogo, con il suo fascino strano, ha qualcosa che mi è rimasto impresso in un angolo dell’anima.
Il palazzo stesso è piuttosto bizzarro. Cerca di restare nascosto, ma è comunque facile intuire dove si trovi, dato che la posizione geografica non è così complicata da scoprire: è poi c’è quel mare bellissimo che non si può dimenticare. La parte che ospita la chiesetta ricorda un albergo. Si tratta di una struttura con bagni ricercati e finestre ampie e aristocratiche, un terrazzo molto grande e una vista strepitosa. Anche l’ingresso è affascinante: due scalinate si dividono, separate da due colonne imponenti, creando un’atmosfera davvero suggestiva. Non è facile capire esattamente cosa fosse originariamente, ma credo proprio che si trattasse di una struttura ricettiva, anche se la sua natura mi rimane un po’ misteriosa e difficile da decifrare. Dall’altra parte, invece, potrei definirla dependance, c’è un locale più accogliente, con dei divanetti colorati e anche qui una vista mozzafiato sul mar Ligure: forse un piccolo bar, un locale notturno, però, purtroppo, ormai devastato e distrutto. Ammetto che se fosse ancora attivo potrei farci un pensiero per una bella serata in compagnia di qualche amico/a.
La cosa che più mi ha colpito, però, è stata senza dubbio la chiesa di Conchiglie, ed è per questo che ho voluto chiamare questo posto con il suo nome. È davvero unica nel suo genere, e sono abbastanza certo che non mi capiterà mai più di trovare un luogo di culto così singolare.








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POSTED ON 21 Feb 2025 IN
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L’esplorazione della Casa dei Giochi è stata un’esperienza singolare, diversa dal solito. È passato molto tempo da quel giorno e i ricordi iniziano a sfumare, ma alcune immagini restano ben impresse nella mia mente. L’ingresso era inconsueto, con una carrozzina lasciata lì, apparentemente senza motivo, senza alcuna connessione con il resto della casa. Alla sinistra, un ambiente con numerosi divani e un camino: in questa stanza ho provato un senso di disturbo. Sopra il camino, infatti, erano appoggiati due animali impagliati, difficilmente riconoscibili, due pennuti probabilmente, e in mezzo a loro, due bizzarre bottiglie e un pupazzo decapitato che somigliava a una sorta di Babbo Natale horror, un dettaglio che contribuiva a creare un’atmosfera surreale e inquietante. A destra del camino c’era un televisore, danneggiato al punto da sembrare come se ci avessero sparato: un foro centrale che faceva da contrasto a una donnola, anche lei impagliata, un altro animale esposto che aggiungeva alla scena un senso di stranezza.
A destra del televisore bucato un arco dava accesso a una sala da biliardo, una sorta di area dedicata al gioco e al tempo libero (con un altro camino, per sentirsi al riparo dal freddo). Qui abbiamo trovato la scatola, vuota, di un orologio, un Rolex Oyster. Dell’orologio nessuna traccia ovviamente, ma quel piccolo dettaglio ci ha lasciato comunque con una sensazione di dubbio. A destra dell’entrata, invece, c’era una cucina ormai completamente distrutta, moderna, poco interessante, e di fronte una scala elegante che conduceva al secondo piano, dove si trovavano quattro stanze, ciascuna con il proprio bagno. Una delle stanze era dedicata ai giochi: c’erano un fucile ad acqua e una pistola giocattolo, un biliardino, un calciobalilla in miniatura, un batteria della Bontempi e uno strano pupazzo che davvero non saprei come descrivere. Da qui la definizione, quasi fisiologica, di Casa dei Giochi.
La prima impressione è stata quella di un piccolo albergo o un bed and breakfast, dimenticato nel tempo. Tuttavia, ciò che contrasta con l’idea di un B&B è proprio quella carrozzina. La sua presenza è incongruente, distopica, e cambia radicalmente la percezione del luogo. È strana, posizionata davanti a quello che sembrerebbe un piccolo bar, tipico di una struttura ricettiva. La sua presenza, fastidiosa e inquietante, impedisce di raccontare, anche con l’utilizzo della fantasia, la storia di questa villa in modo lineare e completo. Alla fine, ciò che rimane di questo luogo anonimo, ormai devastato, è il ricordo di chi si è trovato a esplorarlo.








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