
Il cretto di Burri è il nome con cui è conosciuto il “Grande Cretto”, un’opera artistica di land art realizzata da Alberto Burri tra il 1984 ed il 1989 nella città vecchia di Gibellina, andata completamente distrutta dal terremoto del 1968. […] Burri progettò un gigantesco monumento della morte che ripercorre le vie e vicoli della vecchia città: esso infatti sorge nello stesso luogo dove una volta vi erano le macerie, attualmente cementificate dall’opera di Burri. Dall’alto l’opera appare come una serie di fratture di cemento sul terreno, il cui valore artistico risiede nel congelamento della memoria storica di un paese. Il cretto ha una superficie di circa 8000 metri quadrati, facendone una delle opere d’arte contemporanea più estese al mondo. (
Wikipedia)
Devo ammettere che ero molto curioso di visitare il Cretto di Alberto Burri: sia dal punto di vista storico che dal punto di vista fotografico. Sono rimasto deluso. L’opera dell’artista umbro in realtà mi ha meravigliato: è fantasmagorica, enorme, impressionante. Pensare che sotto quel cemento esisteva un paese fa pensare, intristisce. Deludente è il trattamento che la Sicilia ha riservato al Cretto. Intorno è il nulla più assoluto: vegetazione incolta, strade dissestate, un orrido parcheggio, nessun cartello, nessuna indicazione, nessuna storia. Niente. Niente. Solo l’opera monumentale di Burri. E poi basta, anzi, cartacce, erba, sporco, escrementi, due palazzi semidistrutti, un prato incolto. Sembra che qualcosa si stia muovendo, che esista l’intenzione di rendere giustizia al Cretto. Sono passati solo trent’anni d’altronde. E sarebbe ora.
Il Grande Cretto, opera di potenza straordinaria, è la monumentale raffigurazione di un lutto al momento impraticabile per la portata delle conseguenze, il cemento nasconde e allude alla frammentazione sottostante, tenuta insieme dalla rete metallica che, grazie alla rigidità, garantisce una coesione tra i pezzi che altrimenti resterebbero sparsi. (Silvia Grasso)

Atatürk è l’eroe nazionale turco. E questo è il suo mausoleo. Una struttura incredibile, enorme, fantastica, monumentale, squadrata, pulita, perfetta, lineare, minimalista; che rende bene l’idea di quanto il popolo turco possa amare il suo eroe. Sentire la guida raccontare, con le lacrime agli occhi, la storia di questo incredibile personaggio storico mi ha emozionato. Mustafa Kemal Atatürk era 50 anni avanti rispetto al resto del mondo, basta dare un’occhiata rapida alle sue idee per capire la sua grandezza. Ho scattato questa foto durante la visita mattutina al suo mausoleo: mattino presto di un giorno infrasettimanale. Solo il nostro gruppo, nel freddo, e le guardie. Sono salito sugli scalini che portano alla cripta, ho aspettato che il piazzale fosse vuoto e ho scattato a f/8. E questa è una delle foto che preferisco del viaggio in Turchia: mi lascia un senso di pace e grandiosità.

Il nome Reeeenzo Piano è sempre sinonimo di grandi strutture. E il museo d’arte moderna di Oslo non sfugge a questa regola. E’ un’opera suggestiva ma molto difficile da fotografare; è circondata dall’acqua e coperta di vetro ma quello che colpisce sono le sue finestre arancioni. Tutte uguali, tutte chiuse, tutte molto vicine, tutte perfettamente allineate (e ci mancherebbe altro). Ho girato intorno all’Astrup Fearnley Museet almeno venti minuti senza riuscire a trovare niente di particolarmente originale. Ero ossessionato dalle finestre arancioni, ma riuscire a ripetere la perfetta simmetria in foto è impresa ardua e complicata. Mi sono arreso presto e ho cercato di immaginare punti di osservazione diversi dal solito e ho guardato verso l’alto: e guardare verso l’alto in fotografia non tradisce quasi mai.

Fra le tante foto che ho scattato al Vigeland Park questa è sicuramente la mia preferita e probabilmente la migliore. Mi piace essenzialmente per la composizione molto bilanciata: al primo sguardo si evidenziano subito due linee oblique che partono dall’obelisco e si dirigono verso i bordi della foto. Nella parte sinistra c’è Monica (con la sua ombra) che si allontana scendendo gli scalini, nella parte destra le statue che vengono incontro all’osservatore sino a sfuocare (ho scattato in priorità di diaframmi a f/2.8, atipico per una foto del genere ma volevo appunto lasciare il primo piano completamente fuori fuoco). E poi c’è l’attesa. Per riuscire a scattare questa foto ho dovuto aspettare diversi minuti (e non avevo molto tempo) sperando che un soggetto interessante scendesse in solitaria le scale; ho avuto fortuna perché Monica non guardava verso di me ed i suoi pantaloni rossi sono perfetti in questa foto composta da solo due colori: il grigio della pietra e l’azzurro del cielo. Good Job Samuele (cit. Massimo Bassano).