POSTED ON 19 Mar 2024 IN
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Del Dancing Paradiso ho sentito tante cose ultimamente e devo ammettere che io non ho nemmeno sfiorato quell’empatia e quella meraviglia che ho letto in quasi tutte le recensioni (perdonatemi il termine). Sono un animo insensibile. Per me il dancing è stato confusione, ecco, confusione è il termine che rende meglio l’idea: dal punto di vista fotografico quasi fastidioso, claustrofobico, un insieme di oggetti alla rinfusa, nel disordine, nel degrado e nel buio quasi totale. Certo, c’è un mondo dietro, la vita della signora Paola si intreccia e si divide fra questi ricordi, fra questi pezzi di vita; purtroppo non sento la voglia di memoria che ascolto da tante parti.
Entrare nel Dancing, con la sua enorme mole di ricordi, mi ha fatto tornare in mente una storia che trovai in rete qualche tempo fa: fra 100 anni saremo tutti morti e sepolti. Fra i nostri discendenti nessuno saprà chi eravamo e nessuno si ricorderà di noi. Tutte le nostre proprietà e le nostre cose saranno di sconosciuti, che non sono ancora nati. E tutto questo insieme di oggetti, prezioso per alcuni, per il resto del mondo è semplicemente confusione: non mi ha lasciato sensazioni positive, mi ha fatto pensare che il tempo scorre velocemente e che tutto quello che oggi conserviamo domani sparirà nel nulla. Anche il Dancing Paradiso, nonostante una storia gloriosa, è diventato un’inutile accozzaglia di oggetti, alcuni orrendamente kitsch, e il tempo riuscirà a cancellare anche questo angolo di mondo destinato a scomparire, scusate la citazione, come lacrime nella pioggia.
Ammetto di aver qualche sintomo di distacco dai sentimenti, ma non credo di essere un replicante come Roy Batty: eppure nonostante fra queste pareti si siano raccontate storie d’amore, di amicizia, di vita, di tempo passato insieme, nonostante ci sia un intreccio di emozioni forti (anche senza andare vicino alle porte di Tannhäuser), anche il Dancing Paradiso è giunto al termine vita. Peccato, ma anche no: qualche volta forse è meglio non guardare indietro.








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POSTED ON 2 Feb 2024 IN
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Esistono luoghi che hanno un’anima, ma uno scatto soltanto. È un modo di dire, un tentativo di definizione: significa che quello specifico luogo abbandonato merita la visita, ma solo per scattare una singola foto, generalmente una stanza molto interessante, oppure per un particolare dettaglio. Il resto è nulla. Questa cascina a rischio imminente di crollo, che ho voluto definire in modo ermetico del serpente sospeso, vive di un paio di immagini; è la classica botta e via. Poi in realtà intorno si può visitare una struttura enorme, silenziosa e terribilmente vuota, per certi versi anche spettrale, inquietante: ma che non merita il consumo dell’otturatore. Sono entrato dall’enorme portone, ho puntato deciso alla stanza da fotografare, quindi ho ammirato il mobile sospeso e sono scappato. Ci sono esplorazioni che meritano il tempo, altre che si riducono ad una foto, uno scatto soltanto; che poi come sempre io non riesco a limitarmi e le immagini diventano 11, ma è un altro discorso.










POSTED ON 24 Gen 2024 IN
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Nella mia esperienza di urbexer ho visitato alcuni luoghi indimenticabili, che lasciano una memoria importante e che riescono a togliere il fiato. Molti perché hanno una bellezza intrinseca, reale, tangibile, altri perché dopo averli visti e desiderati da tempo quando arriva il momento l’emozione è sempre tanto forte. E poi ci sono ambienti che rimangono nel cuore, anche solo ad annusarli, a intuirli, a immaginarli. La storia di queste foto è complicata, consta di un salto indietro nel tempo importante e di una serie di richieste, conferme, amicizie, opportunità. E quando l’opportunità capita, e poi capita ancora, forse è un segnale che giocoforza debba essere sfruttata, nonostante i retro pensieri.
L’esplorazione di quella che viene definita Villa dei Libri (ma che in realtà ha un nome aristocratico e altisonante) è stata praticamente notturna: tutte le foto sono scattate con il treppiede, sensibilità alta e tempi decisamente lunghi perché ho preferito entrare sfruttando delle tempistiche insolite. Ed è stata un’esplorazione in solitaria, e mi capita di rado, perché la mia controparte ha scelto di non entrare per rispettare un principio di correttezza e di rispetto nei confronti dei proprietari: una promessa da mantenere. La sua motivazione è assolutamente comprensibile, ma devo ammettere che mi è dispiaciuto molto fotografare da solo per come erano iniziate e proseguite le ricerche e per il livello della location.
Sono entrato e uscito senza sfiorare niente, cercando di essere il più invisibile e veloce possibile, per non disturbare l’idea di calma e tranquillità che regnava intorno a me. Ho scelto di riprendere solo le stanze più interessanti e per una volta ho preferito non creare un reportage completo, ma solo di cogliere l’essenza più importante. E ci sono i libri, che sono la storia di questa villa, che portano un’impronta forte: si sente il profumo della carta e della polvere ed è una magia che non riesco a descrivere con le parole, ma solo con le immagini. Spero di essere riuscito a rendere l’idea delle emozioni che ho provato mentre aspettavo, un tempo interminabile, che si chiudesse l’otturatore.

















POSTED ON 20 Gen 2024 IN
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Il mondo urbex delle discoteche è in continuo fermento. La moda dei locali da ballo che imperversava negli ultimi decenni del secolo scorso è andata scemando e dopo qualche timido tentativo di rilancio la stragrande maggioranza delle fabbriche del divertimento notturno ha dovuto chiudere i battenti. Alcune sono autentiche ed enormi cattedrali nel deserto, senza alcun futuro. Fra le protagoniste indiscusse del periodo d’oro, sicuramente la Discoteca Mayerling di Castellar Guidobono in provincia di Alessandria (in questo caso non avrebbe senso nascondere il nome) si differenziava per una particolare caratteristica: la tigre. Adesso sembra assurdo, ma la discoteca prende il nome dalla Tigre Mayer, poco più di un gatto, come la definiva Giorgio Brichetti, storico ideatore e proprietario del locale.
Mayer, poco più di un gatto! Quando ho aperto il Mayerling qualcuno dei miei collaboratori ironizzava sul fatto che ci volesse un cane molto bello nel giardino del locale, dalla nobile immagine così come il nome della residenza Asburgica. Ma a me non sono mai piaciute le cose semplici così presi la tigre!
Il Mayerling apre al pubblico nel 1983 e, complice la Tigre, è subito un successo spaventoso: l’idea iniziale era di creare un locale per 500 persone, ma alla sera dell’inaugurazione si presentarono in 1500. Praticamente sempre aperta arrivò a contenere sino a 4000 giovani assetati di divertimento provenienti da Piemonte, Liguria, Lombardia ed Emilia. Per quasi 15 anni il successo del Mayerling fu inarrestabile e devo ammettere che leggendo i racconti di chi ha avuto l’onore di varcare quel portone d’ingresso (che oggi è entrato nel mito) rimpiango di non aver avuto il piacere di salutare la tigre Mayer (che è mancata nel 2006 a Salice Terme). Giorgio Brichetti vende nel 1996 e inizia il declino sino alla definitiva chiusura. Qualche tentativo di rilancio, ma ormai i tempi sono cambiati, le persone anche e purtroppo le due torri di ingresso che hanno segnato un’epoca per i giovani della zona sono destinare a rimanere nel silenzio e nell’abbandono. Il ruggito della tigre è un ricordo lontano.











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POSTED ON 9 Gen 2024 IN
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Ci sono diverse motivazioni che mi spingono sempre con maggiore frequenza nella fotografia urbex e non sono semplici da descrivere. La prima forza che mi muove è sicuramente la fotografia: in questo genere, per certi versi molto complicato, è possibile trovare sempre nuovi stimoli e nuove prospettive. È fotografia di interni, di architettura, ma con un fascino vintage e decadente che rende l’urbex quasi uno stile di vita, vorrei usare la parola ribelle, ma forse sto esagerando.
Il secondo motivo è sicuramente la scoperta, la storia che si nasconde dietro ad ogni avventura in luoghi abbandonati. E la storia di Orazio e Lucrezia è intrigante, malinconica, straniante, triste. La si intuisce, la si comprende e si entra in sintonia con loro anche se non sono più parte del nostro mondo ormai da tempo. È come quando ci si innamora di un film e si vorrebbe diventare amici dei personaggi di quella pellicola. Con Orazio e Lucrezia si prova una sensazione simile, ma loro sono reali e si impara a conoscerli osservando la loro vita, la loro casa, quello che hanno lasciato nel tempo senza che nessuno potesse custodire il loro lascito. Viene anche definita La Villa del Bersagliere, non sono riuscito a capire se ci siano della verità nella definizione, ma sicuramente qui viene raccontata la perdita di un figlio e si impara a conoscere la tristezza e il dolore che hanno accompagnato la seconda parte del secolo scorso. È un insieme di ricordi e malinconia che, pur senza conoscerli, fanno amare i protagonisti di questa storia, tratto da una storia vera si dice al cinema, quasi a volerli abbracciare se fossero ancora qui.
Fra queste mura abbiamo scattato in silenzio, sottovoce, con un rispetto ancora maggiore in confronto ad altre esplorazioni. Perché certi messaggi, conservati con estrema cura per anni, fanno scendere le lacrime dagli occhi e ti lasciano dentro una sensazione di empatia non semplice da descrivere. Quando siamo usciti il nostro cuore era contrariato e felice, ma colmo di un’aurea indecifrabile di emozioni e suggestioni positive. Ma quello che sorprende è che probabilmente è solo immaginazione, tentativi di pochi minuti per decifrare un codice che richiederebbe un’analisi molto più approfondita: sono fantasie che si possono elaborare e diventare una sorta di realtà. La nostra realtà aumentata ed è questo rende incredibile questo viaggio. E voglio chiedere scusa a Orazio e Lucrezia per aver osservato, come in un film, la loro vita, ma mi sento di mandargli un abbraccio perché in questi pochi minuti gli ho voluto bene. Davvero. Sembra impossibile, ma è così.













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POSTED ON 2 Gen 2024 IN
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Viene definita Villa del Cacciatore per una cartuccia e un cinturone da caccia che si trovano nella sala da pranzo. Io avrei scelto un altro nome, perché la prima cosa che salta all’occhio e l’enorme quantità di calendari sparsi per tutta la casa e che coprono un arco temporale di circa 24 anni (1979-2003), anche se la stragrande maggioranza è relativa ai primi 2000. E poi, ma questo capita in tanti luoghi abbandonati, non si può non notare la presenza invadente -eccessiva- di simboli cattolici in tutte le stanze: crocefissi, foto, santini, un vangelo, la madonnina con l’acqua di Lourdes, madonne vari, almeno 3 pontefici, Gesù, il suo cuore e diversi santi.
Ma senza considerare queste ingombranti oscenità (ci sono anche tante bottiglie liquori e un paio di spille della Lega Nord) quello che colpisce di questa Villa è il totale stato di abbandono corredato da un silenzio e da un senso di tranquillità che in altri luoghi non ho riscontrato. Se il riferimento temporale fornito dai calendari è reale (e non ho motivo di pensare il contrario) fra queste pareti non metteva piede nessuno da oltre 20 anni e il tempo ha portato avanti la sua opera di distruzione senza intralcio. La tappezzeria che si scolla, l’intonaco che cade a pezzi sui mobili e sui pavimenti, lo spesso strato di polvere e la presenza di tutti gli oggetti di una vita raccontano tanto e non lasciano spazio a dubbi e incertezze.
Se dovessi stilare una classifica sulla qualità fotografica delle mie esplorazioni urbex credo che la Villa del Cacciatore potrebbe tranquillamente ambire al podio. Ho selezionato qualcosa come 73 foto, non sono riuscito a scartare niente, e credo che riescano a raccontare in modo pressoché completo la situazione e la storia di questa incredibile casa. Perché qui dentro il rischio è davvero di perdersi nei dettagli e negli oggetti, perché si percepiscono l’emozione e la tradizione che il secolo scorso hanno rappresentato per il nostro paese. E poi quando siamo usciti… ma no, è un’altra storia che non voglio raccontare. Non ancora almeno.













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