
Tanti anni fa, c’era un videogioco in cui il protagonista, armato, si faceva strada attraverso luoghi oscuri, attaccato da mostri e creature varie. Uno sparatutto, non ricordo con precisione i dettagli, ma uno dei livelli del gioco era chiamato The Citadel /e non riuscivo a superarlo). In questo livello, il protagonista si trovava all’interno di una cittadella militare e veniva costantemente assediato e doveva difendersi da ogni parte. Mi creava un’ansia pazzesca, ma ero molto giovane. Domenica, durante le giornate FAI di Primavera (ma faceva talmente freddo da sembrare inverno), sono andato ad Alessandria e ho avuto la possibilità di visitare ed esplorare la Cittadella, una ex caserma militare dal grande valore storico. Essendo una struttura imponente, mi ha subito ricordato quelle sensazioni di pericolo e guerra che avevo vissuto durante le sessioni di gioco a DOOM (questo il nome del videogame) tra armi, vita militare e l’atmosfera di assedio.
La visita è stata molto interessante, purtroppo il tempo non era dei migliori, non ero ispirato, sarà l’aria mandrogna, sarà la focaccia dolce, ma le foto fanno schi sono poco significative. Nonostante tutto c’è un’immagine, una sola, che mi piace particolarmente. Rappresenta un momento della visita all’interno del bastione Sant’Antonio, nelle gallerie di demolizione, una delle zone esterne e più nascoste della cittadella (il senso di isolamento è inquietante). Questa foto mi piace per il contrasto fra il colore giallo dei caschetti da cantiere e l’ambiente quasi monocolore; ho quindi deciso di condividerla, unico scatto della giornata.
Chissà, magari un giorno tornerò alla Cittadella di Alessandria, meglio in estate, con il sole e una luce diversa, più favorevole. Per ora mi accontento di questa interessante lezione di storia, fra Savoia, Napoleone, Risorgimento Italiano e Novecento.
Doom (scritto DOOM in caratteri maiuscoli) è un videogioco creato da id Software e pubblicato nel 1993. È ritenuto uno degli esempi più influenti del genere sparatutto in prima persona. Combinando un innovativo uso della grafica 3D, uno stile di gioco semplice e veloce e un elevato tasso di violenza, in breve tempo diventò molto popolare. Nel 1997 è stato stimato che la versione shareware (che comprende il primo dei tre episodi del gioco) sia stata prelevata e giocata da almeno 15 milioni di persone.

Oggi racconto la storia di una stanza, una singola stanza. Perché il resto della casa è normale, tradizionale, nulla da segnalare: una moderna abitazione del nostro paese; e per una volta preferisco limitare il reportage al singolo ambiente. Ho fotografato tutto, ma non avrebbe nessun senso aggiungerlo proprio per un discorso di attinenza.
Quando si entra
nella memoria del Dragone Rosso si scoprono
i ricordi di un tempo meraviglioso. Qui il treno conclude il suo percorso e sembra che la fermata sia sul fiume azzurro, ai tempi della
Dinastia Ming. Non è facile comprendere il motivo di
questo spazio meraviglioso, proprio di fronte alla porta di ingresso: ma sicuramente si viene presi dalla voglia di sedersi sul divano e godersi un tè verde con il sottofondo musicale di un guqin.
Tutto è perfetto e l’insieme fa pensare davvero di essere in Cina. I colori, i dettagli, i vasi, il lampadario, il divano, la finestra, i quadri dipinti sulle pareti: tutto è ricostruito perfettamente, come un mondo parallelo, come un viaggio nello spazio/tempo attraverso una porta di ingresso: sembra di vagare nel nulla più disperato e, pochi istanti dopo, si varca un portone e ci si ritrova nella Repubblica Popolare Cinese. E poi quando si esce e l’idea è ancora quella di vivere un sogno, si guarda per terra, si vedono due pietre che sorreggono un cartello e si legge una scritta che riporta immediatamente alla realtà: Casa disabitata non c’è nulla da portare via.









Quando ero bambino mio padre era un grande appassionato di elettronica (e deve avermi trasmesso questa passione). All’epoca lavorava nel più conosciuto negozio del settore di Imperia (per chi si ricorda: Il Punto di Garibaldi, sotto i portici di via della Repubblica), non esistevano ancora le grandi catene, siamo nella prima metà degli anni ’80. Mi ricordo le partite al calcio dell’intellevision in vetrina, altri tempi. In casa passava, ovviamente, qualsiasi novità (come dimenticare il BetaMax) e non poteva mancare lo stereo, alta fedeltà si definiva allora (forse anche adesso): mi ricordo la musica ad alto volume, il suono perfetto, le cuffie giganti (a me bambino sembravano fantascienza). Se non sbaglio l’amplificatore era un Technics (color oro) con tantissime lancette e una manopola del volume enorme: due lettori a cassette -per duplicare- e un piatto per i dischi. E qualche vinile in casa c’era e fra questi uno particolare, da maneggiare con cura, con un nome strano che mi incuriosiva particolarmente: Lo schiaccianoci di Čajkovskij. Ricordo molto bene la copertina: era beige con il nome Ciaikovski in grande, poi il titolo, e un’immagine di ballerine in tutù. A me non piaceva, solo un pezzo trovavo interessante (ho scoperto adesso trattarsi del Walzer dei fiori). Venerdì scorso mi hanno invitato ad assistere/fotografare a quello che posso definire il mio primo balletto a teatro: e quando ho letto il titolo, lo schiaccianoci di Čajkovskij interpretato dal Balletto di Milano, la scoperta mi ha lasciato un senso di bellezza, di sorpresa, un sorriso, come se, a distanza di oltre 40 anni, si chiudesse un cerchio. E quando, al secondo atto, è arrivato il momento del Walzer dei fiori ho pensato: eccola, ciao papà.
Adesso una nota tecnica, di fotografia, una sorta di promemoria. Non volevo disturbare il pubblico e ho deciso di scattare in modalità silenziosa: per evitare il rumore dell’otturatore si attiva -in automatico- lo scatto elettronico. Purtroppo con la combinazione
tempi veloci e luci artificiali (neon/led) si genera un fenomeno definito
Flickering. Il Flickering, che in italiano potremmo definire
sfarfallio, produce nelle foto delle orrende bande nere/colorate dovute principalmente agli effetti che provoca la variazione della tensione elettrica nei sistemi di illuminazione. E quindi,
morale della favola, mi sono ritrovato la stragrande maggioranza delle
immagini (qui esempio) con queste fastidiose strisce e ho dovuto cestinare quasi tutto il lavoro. Anche in queste 23 selezionate, con un po’ di attenzione, è possibile notare il fenomeno. Da domani mai più scatto elettronico, sopporterò il rumore.









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