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Nella tana del bianconiglio
POSTED ON 25 Ott 2020 IN Reportage     TAGS: URBEX, mansion

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Nel misterioso e affascinante mondo dell’urbex, c’è una verità inconfutabile: ogni esploratore sogna di essere il primo. Il primo a entrare, il primo a scattare quelle foto uniche che nessuno ha mai visto prima, perché in questo universo di avventure e scoperte, la posizione privilegiata di chi scopre una location sconosciuta ha un valore inestimabile. È questione di prestigio, di un gioco di scambio che si basa sulla rarità e sull’esclusività. Ma io? Io sono diverso. Non ambisco mai a essere il primo. Non c’è nulla di intrigante per me nel brivido iniziale della scoperta, e anzi, a volte mi sembra che quella fretta di essere i primi tolga la magia stessa dell’esplorazione. Non è solo questione di paura dell’ignoto, anche se, se devo essere onesto, un po’ di timore c’è sempre; ma quello che conta davvero per me è il processo che si cela dietro la fotografia.

A me piace studiare, osservare e, soprattutto, immaginare. Vedere un luogo nelle sue sfumature più intime prima ancora di entrarci, conoscere ogni angolo, ogni dettaglio da immortalare. Questo approccio mi permette di costruire un legame profondo con il luogo prima che l’obiettivo della mia macchina fotografica lo catturi. Però, devo ammetterlo, talvolta questo metodo mi spinge a non essere troppo creativo, a dipendere troppo da ciò che ho già visto nelle immagini altrui. E questo, forse, è il mio rischio: rimanere ancorato alla realtà di ciò che è stato e non abbandonarmi completamente alla sorpresa dell’ignoto. Ma è un rischio che sono disposto a correre, soprattutto quando mi trovo davanti a un momento che avevo già visto mille volte in fotografia, ma che, in qualche modo, riesce ancora a sorprendermi.

Un esempio perfetto di questa sensazione è la tana del bianconiglio, così chiamata per un dipinto che troneggia sulla parete principale della stanza. La sua storia l’avevo già immaginata, il contesto mi era familiare, eppure quando sono entrato nella camera da letto e ho visto quel passeggino abbandonato, ho provato una scarica di emozioni fortissime. Mi sono sentito piccolo e sbalordito, come quando da bambino ho visto la Torre di Pisa per la prima volta. Era come se quella visione, che avevo già visto mille volte attraverso gli occhi di altri, fosse finalmente arrivata a me, più viva, più palpabile di qualsiasi immagine. In un certo senso, è il potere della memoria visiva, un potere che non smette mai di sorprendermi, soprattutto ora che l’età mi rende sempre più susceptibile alle suggestioni e alle emozioni legate a questi luoghi nascosti, che solo un’esplorazione intima e personale può rivelare.

[…]
infranti distrutti distratti da troppo e stretti in una morsa letale
che non dà tempo al Bianconiglio che è sempre in ritardo perenne
come le mie parole scritte in una storia che non è una favola.
– Michele Tropiano

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Villa Matas
POSTED ON 31 Gen 2020 IN Reportage     TAGS: urbex

Villa Matas #12

Entrare in questa struttura, che chiamerò Villa Matas per l’assonanza di due parole che mi ricordano l’ubicazione (ubicazione che in questo specifico caso non ho intenzione di rivelare), è stato come entrare in un tornado di storie, di vita, di passato, di ricordi. Centinaia di oggetti e di suppellettili tipici della seconda metà del secolo scorso: libri, dischi, soprammobili, frutta di plastica, animali di plastica, quadri, lettere e riviste che ripercorrono la storia del 900. Dagli albori del secolo, addirittura del periodo fascista. E poi un bellissimo frigorifero Fiat, residuo post bellico. Si, perchè la Fiat negli anni ’50 si lanciò anche nel mercato degli elettrodomestici. E un piccolo mobile bar, con radio e giradischi d’epoca: un gioiello che ricorda le serate passate ad ascoltare musica di altri tempi. Un romantico tutto nel passato, immerso nell’abbandono e nella polvere, finito nel dimenticatoio del tempo che passa e che lascia nell’oblio le nostre impronte.

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