POSTED ON 30 Gen 2025 IN
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Riuscire a scoprire la storia di un certo abbandono a volte è un rompicapo, come nel caso di questa villa detta del Rabbino o Aramaica. Questa residenza un tempo apparteneva ad un rabbino di origini ebraiche, un uomo di grande cultura e spirito, che aveva trasformato la casa in un santuario di sapere e arte. La villa, ormai avvolta dal silenzio e immersa in un triste abbandono, conserva ancora il fascino dei suoi giorni gloriosi: ogni stanza è un piccolo capolavoro.
Una stanza, in particolare, cattura l’attenzione: quella con il pianoforte. Questo strumento, sebbene
coperto di polvere e foglie, conserva ancora
la sua eco malinconica, come se aspettasse nuove dita per suonare le melodie che un tempo riempivano le stanze. Nell’angolo opposto una credenza, un tavolo antico, un divano che sembra uscire da un libro di Tolkien e un’antica stufa in terracotta risalente ai primi del ‘900. E poi, insieme a
Pickwick di Charles Dickens, una bottiglia di
Liquore Strega, invecchiata insieme alla villa. Questo liquore, con la sua etichetta intatta e il suo contenuto ancora ambrato, rappresenta
un ultimo, dolce ricordo di celebrazioni, studi e contemplazioni. Ma l’ambiente che mi ha sorpreso maggiormente è il bagno,
un bagno incredibile, l’unico della villa, dove il tempo sembra essersi fermato anche oltre il secolo scorso: in tutte le mie esplorazioni non avevo mai percepito
un sapore così antico e originale; sembra di viaggiare con H.G.Wells per immergersi in un’altra epoca (ma senza Morlock).
Questa villa abbandonata non è solo un edificio decadente, ma un luogo dove la storia, la cultura e l’arte si intrecciano in un racconto che attende di essere riscoperto, un segreto custodito nella pianura lombarda, un lascito importante che provoca emozioni e che mi ha fatto sentire al cospetto di un’eleganza e di un’estetica di livello superiore. Non riesco a descrivere in modo lineare le vibrazioni che ho sentito, ma ammetto che qui ho percepito un’aura pazzesca che mi ha fatto tornare in pace con il mondo. E non è impresa facile.
















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POSTED ON 28 Gen 2025 IN
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La Bianchina Autobianchi deve la sua enorme ed incredible fama al ragionier Fantozzi che utilizza una mal ridotta 4 posti bianca in tutti i suoi film. Iconica la scena in cui 3 energumeni non troppo gentili tolgono la portiera di forza mentre il ragioniere più sfortunato del mondo cerca di tirare sul il finestrino con la manovella: non riesco a smettere di ridere solo al pensiero. Nella stessa scena la signorina Silvani, dopo che Fantozzi alla guida ha recitato, spacciandole per un suo componimento giovanile, le parole di Lorenzo il Magnifico esclama: “Ah, anche poeta!” e poi sputa sullo specchio che sta usando per truccarsi. Nel 1975 (anno in cui uscì il primo Fantozzi) l’Autobianchi aveva smesso di produrre la Bianchina da 6 anni.
La Bianchina fu concepita come una versione più lussuosa della Fiat Nuova 500, mantenendo però lo stesso telaio e la stessa meccanica della vettura popolare. Il modello fu presentato al pubblico il 16 settembre 1957 al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, un contesto che sottolineava l’intento di posizionarla come un’auto elegante e raffinata, lontana dalle sue origini di utilitaria. All’inizio, la Bianchina fu proposta nell’unica versione a tre volumi, denominata Trasformabile, che si distingueva per il tetto apribile in tela, le abbondanti cromature e le pinne posteriori, un tratto stilistico che la rendeva più simile a vetture di categoria superiore. Questo design contribuì a darle un aspetto lussuoso che attirò subito l’attenzione del pubblico, soprattutto dei milanesi, affascinati dall’idea di possedere una macchina più elegante rispetto alla più spartana Nuova 500. Nonostante il prezzo di listino fosse significativamente più alto le vendite iniziali della Bianchina superarono quelle della sua sorella economica. La ragione di questo successo iniziale si può attribuire al fascino del marchio Bianchi, che evocava qualità e raffinatezza, oltre alla possibilità di pagamenti rateali in 30 mesi offerta dalla SAVA, che rese l’acquisto più accessibile. Vista la buona accoglienza, l’Autobianchi decise di ampliare la gamma della Bianchina. Nel 1959, il motore fu potenziato a 17 CV, mentre nel 1960 vennero introdotte le versioni cabriolet e Panoramica. Nel 1962, la Bianchina Trasformabile venne sostituita da una nuova versione denominata ufficialmente 4 posti, un modello che si distingueva per il tetto chiuso e la capacità di ospitare quattro persone. Sebbene il pubblico la definisse spesso berlina, questa denominazione non fu mai adottata ufficialmente dalla Autobianchi, che continuò a chiamarla semplicemente 4 posti. Il design della Bianchina 4 posti era molto apprezzato per la sua eleganza e per la praticità di una berlina compatta, ideale per chi cercava una vettura che unisse il comfort e la versatilità a una guida più dinamica. Sebbene il prezzo fosse superiore a quello delle versioni più semplici, la 4 posti rappresentò un’opzione popolare per chi desiderava una piccola auto familiare, senza rinunciare al fascino della Bianchina e alla sua tradizione di auto dallo stile ricercato.
Il modello in queste immagini, di un bellissimo colore azzurro con tanto di portapacchi in tinta, dovrebbe essere una Bianchina Furgoncino, creata nel 1960 sulla base della Panoramica e rimasta in produzione sino al 1969. Purtroppo il crollo del tetto l’ha praticamente distrutta e non credo possa essere ancora recuperata (anche per via dei costi eccessivi). Un vero peccato, perché parliamo di un piccolo, ma importante pezzo della storia dell’automobile del nostro paese.





POSTED ON 27 Gen 2025 IN
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Nascosta tra le colline del Piemonte, giace una struttura imponente e misteriosa conosciuta nel mondo urbex come La Villa della Grande Muraglia. Questa dimora, una volta maestosa, è ora avvolta dal silenzio e dall’incuria del tempo, ma i suoi interni raccontano una storia affascinante di cultura e bellezza. Appena si varca la soglia d’ingresso della villa, si è accolti da una collezione di oggetti che sembrano trasportare direttamente in Cina. Vasi di porcellana, tra cui alcuni con elaborate scene di combattimento, sono sparsi sui mobili, mentre il celebre maneki-neko, il gatto con la zampa alzata che porta fortuna, sembra ancora invitare la prosperità nonostante la decadenza circostante. Statuine di legno, l’immancabile acqua di Lourdes, piatti di ceramica, una strana maschera indonesiana, insieme a quadri che raffigurano scene di vita cinese, adornano i mobili e le pareti, creando un ambiente che mescola il fascino orientale con l’abbandono occidentale.
Al centro della villa, una sala cattura l’attenzione per la sua bellezza decadente. Qui, un soffitto affrescato con angeli sospesi in cielo e motivi floreali, ormai sbiaditi dal tempo, racconta storie di un’epoca tardo medioevale. Ogni pennellata sembra ancora viva, i colori sono intensi, nonostante il trascorrere del tempo, le crepe e il degrado. Poco oltre si trova lo studio, rimasto come se il proprietario fosse appena uscito. Libri di viaggi e romanzi con le pagine ingiallite, si accumulano sugli scaffali di legno. In mezzo alla stanza, un bellissimo aspirapolvere Lincoln d’epoca, un reperto tecnologico che ricorda la metà del secolo scorso. Le camere da letto, sparpagliate per la villa, mantengono un’aria di eleganza perduta e vintage, con letti imponenti e mobili intarsiati, quadri, foto, e tutti i ricordi testimoni silenziosi di un passato glorioso e destinato all’oblio.
Per raccontare questa villa sono dovuto tornare due volte perché la prima non è stata sufficiente: la quantità di oggetti da descrivere è impressionante, ogni porta che si apre nasconde una nuova scoperta, una meraviglia, un’emozione. Ho immaginato il salotto con il camino accesso e la musica uscire dai tasti del pianoforte, ho percepito fra le pareti della sala da pranzo il profumo del minestrone provenire dalla cucina. La Villa della Grande Muraglia non è solo una casa abbandonata; è una capsula temporale che custodisce la fusione di due culture, un luogo dove il tempo si è fermato, lasciando dietro di sé un enigma avvolto nella bellezza e nella polvere.



















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POSTED ON 24 Gen 2025 IN
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Non è stato facile raggiungerlo: transenne, rovi, muri pericolanti; ma, varcata la soglia d’ingresso, nella prima stanza siamo stati accolti da una sinfonia di colori, uno spettacolo per gli occhi. Era una struttura fra le più importanti del suo genere: un antico porto sul fiume Arno con annesso casino di delizia. All’epoca il fiume Arno era completamente navigabile e quando fu costruito, all’inizio del 1700, costituiva il punto d’attracco per le imbarcazioni, probabilmente dirette verso Villa Bibbiani, del cui complesso la struttura portuale faceva parte.
In origine l’edificio era circoscritto alla singola partitura del grande arco sormontato da una loggia traforata che inquadrava l’accesso alla villa. Con stratificazioni successive, prevalentemente settecentesche, il complesso si arricchisce di ambienti, pertinenze e decorazioni tese a conferire all’insieme un carattere di vero e proprio luogo di delizia, costruito per il divertimento. Illustri le famiglie fiorentine che hanno posseduto l’intero complesso di Bibbiani attraverso i secoli: dai marchesi Frescobaldi, primi proprietari di Bibbiani fin dal Rinascimento, ai marchesi Ridolfi, tanto per citarne due. Celebre il parco, voluto personalmente da Cosimo Ridolfi (1794 -1865) nel momento in cui acquistò il complesso dai Frescobaldi.
Oggi, il porto mostra segni di un degrado estremo: il tetto è crollato, con coperture temporanee di lamiera e infestazioni di piccioni. L’architettura originale, con il suo corpo centrale rettangolare e aggiunte laterali, conserva ancora tracce di un passato glorioso, come le canalizzazioni, le banchine e le decorazioni in pietra, ma è in netto contrasto con l’abbandono attuale. Le tracce storiche sono ancora visibili vicino al Grande arco dell’Omo, dove una canalizzazione che conduceva al porto è stata interrotta dalla moderna carrabile. Gli affreschi e le decorazioni storiche del porto sono state riscoperte in passato, ma la conservazione di questi elementi è sempre più difficile, complicata da ostacoli burocratici che hanno ritardato qualsiasi tentativo di restauro (si tratta purtroppo di un bene privato). Questo scenario evidenzia l’urgente necessità di azioni concrete per la conservazione e il recupero di un bene culturale che, se perso, rappresenterebbe una perdita irreparabile per il patrimonio storico e artistico del nostro paese.










POSTED ON 20 Gen 2025 IN
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Ipogeo significa sotterraneo e questa cosa avrebbe dovuto farmi riflettere/capire. Arrivo davanti a questa piccola chiesetta, sembra interessante, ma noto con dispiacere che la porta è chiusa. L’unica via di accesso è una piccola finestra stretta e verticale (deve avere un nome) e non trovo altra soluzione. Lascio cadere zaino e treppiede all’interno (e non era basso) e provo ad entrare. Non riesco, è davvero strettissima, e inizia a prendermi una specie di panico perché senza entrare non sarei riuscito a recuperare lo zaino. Cerco una soluzione e dopo un paio di tentativi maldestri riesco a infilare una gamba e quindi la testa: sono dentro lanciandomi quasi a peso morto. A quel punto la domanda sorge spontanea: ma Lorena come ha fatto ad entrare? Ma è una domanda al quale troverò risposta dopo.
La piccola chiesa è davvero bella:
è abbandonata da tempo, si capisce che qui nessuno mette piede da chissà quanti anni. La porta è saldata (ecco perché non si apriva). Faccio un giro rapido, scatto qualche foto e mi accorgo che in una piccola stanza laterale ci sono dei gradini. Non mi lascio
intimidire dal buio, accendo la torcia e percorro la scala a chiocciola in discesa. Arrivo in un
antro sotterraneo, ecco perché si chiama Ipogeo: ci sono due stanze, entrambe sormontate da una cupola: nella prima un fascio di luce illumina delle rovine, nella seconda, buttato per terra, si trova una copia del
Trono Ludovisi. Dopo la seconda stanza un piccolo cunicolo porta all’esterno, nel parco. In quel preciso istante mi sono reso conto di essere passato dall’accesso più complicato e ho capito come avesse fatto Lorena ad entrare: dalla porta.
In urbex è sempre buona educazione cercare l’accesso più semplice, magari facendo una perlustrazione completa, se possibile, dell’esterno (ovviamente non sempre è possibile). Purtroppo capita, non di rado, di entrare dalla soluzione più complicata. Recentemente (ieri) sono entrato dalla finestra di un palazzo. (senza troppa fatica in realtà) per poi accorgermi che sul lato opposto le porte del piano terra erano tutte spalancate: sarebbe bastato avere meno fretta. Devo però ammettere che l’entrata nell’Ipogeo rimane la contrapposizione più alta che mi sia capitata: l’accesso normale era una porta completamente spalancata in un parco abbandonato, io ho scelto un passaggio quasi impossibile attraverso una finestra strettissima. Genio del male. :-)





POSTED ON 15 Gen 2025 IN
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Ci sono esplorazioni deludenti, ti aspetti qualcosa di interessante e invece ti rendi conto di aver scoperto un marcione/vuotone (termini tecnici di gran moda nel rutilante mondo dell’urbex). E questa cascina abbandonata entra di prepotenza nella categoria delusioni, solo due stanze, qualche foto strana, una cucina confusa (con qualche spunto piacevole). Nelle nostre discussioni da bar fra urbexer siamo soliti dire che non vale il viaggio.
Ma qualcosa c’è, qualcosa di
incredibile e sorprendente: un calendario di
Frate Indovino datato 1965 e appeso in una delle poche stanze interessanti della cascina,
vecchio di 60 anni (molto più vecchio di me).
Padre Mariangelo da Cerqueto, al secolo Mario Budelli, è lui che nel 1945 scrisse la prima edizione del celebre almanacco. Quest’anno Frate Indovino (il nomignolo che si era assegnato Padre Mariangelo, scomparso nel 2002) compie 80 anni, una storia straordinaria:
nelle case degli italiani (soprattutto se urbex)(soprattutto se cattoliche) è uno degli oggetti
sempre presenti, immancabile,
una tiratura di 6 milioni di copie, avete capito bene, ripeto per i disattenti, 6 milioni di copie. Per fare un paragone, il calendario 2000 di Sabrina Ferilli,
fenomeno di massa e oggetto di culto in Italia, vendette 1 milione e 400 mila copie. Nel caso ci fosse un interesse da parte dei
miei numerosi lettori ricordo che esiste anche
una bellissima newsletter per ricevere la parola di Frate Indovino nella propria casella di posta elettronica (ammetto che fa molto anni ’90). Io ovviamente mi sono iscritto.
Sinceramente dubito che questa vecchia cascina sia abbandonata dal 1965, quindi quasi 60 anni di abbandono. Ma nel mondo dell’esplorazione urbana l’impossibile non esiste e quindi potrebbe anche essere plausibile che questo marcione, e nel caso la definizione tecnica le calza a pennello, sia stato lasciato alla mercé della storia per 6 decenni. Se fossi un TripAdvisor dell’urbex darei 1 pallina e non vi consiglierei l’esplorazione. A vostra discrezione.











