
Nonno Migio aveva gli occhi azzurri come il cielo e i capelli candidi, tagliati a spazzola. Io e mio fratello, piccolissimi; uscendo da Casa con lui per mano facevamo lunghe passeggiate giù sino al torrente Brobbio, e Nonno ci diceva il nome di ogni foglia, frutto, erba, insetto che incontravamo. E poi camminavamo ancora sino alla Munia, la più antica cascina del paese, e Nonno raccontava che si chiamava così, Munia (Monaca), perché tantissimi anni prima era un convento. A ogni passo, chi ci incontrava diceva – con quella pronuncia chiusa e dura del dialetto, “Cerea, General” , e “ceréa” in margaritese vuol dire “buona sera”, ma mio fratello le prime volte domandava: “Nonno, ma perché ti dicono culéa?”. Nonna Teresita invece aveva i capelli lunghissimi, ne faceva due trecce che arrotolava attorno alla testa come una corona. E cucinava coi fiori; insalate di pomodori e primule, risotto alle violette, frittata di menta e di ortica… Mai capìto come facesse a raccogliere le ortiche a mani nude, senza mai farsi male. Ricordo le merende fatte con le micherisse appena sfornate e bollenti tagliate a metà e condite con una nocciola di burro che si scioglieva al calore della mollica. E l’acqua era più buona se bevuta alla fonte…non ricordo il nome… Ci si arrivava passando sotto la Torre e buttandosi giù da un sentierino pieno di more. E poi i “sucàr” (prununciati proprio così) di liquerizia comprati dal Tabaccaio, che allora non sapeva ancora che avrebbe avuto un giorno un nipotino speciale; le “marronite“, parallelepipedini di marmellata di castagne presi dalla Campana, che aveva il negozio di alimentari proprio sotto casa nostra… Perché da piccoli potevamo mangiare come buoi, senza ingrassare mai? E quei lunghi pomeriggi di settembre – un mese intero di campagna dopo due mesi di mare, come eravamo fortunati noi bimbi d’allora, eh? – passati a schizzare in bicicletta da via Bertone sino al tennis e ritorno, avanti e indrè avanti e indrè, ma che fatica quella salita al ritorno sino al Castello, schivando mandrie di mucche di razza margara, “bianche come perle“… Oppure avanti e indrè dalla parte opposta, sfrecciando davanti la chiesa e al campanile più alto della zona, arrivando davanti casa Sibilla e poi voltando a sinistra, circondati di campi di meliga e mais, passando davanti al piccolo cimitero e arrivando sino a Riforano… Un’avventura. Eravamo un gruppo di ragazzini inseparabili e più o meno coetanei, letteralmente cresciuti insieme dalla nascita ai 18 anni; io, mio fratello Guido, i tre cugini Mimi, Chicco e Ginetto; Massimo e Nunzio; le ragazzine si chiamavano Mirella, Antonella, Ornella. Tutte “ella”.



Davanti alla casa dei cugini, di fianco alla mia, c’era una panca di legno: serate interminabili trascorse lì, il primo che arrivava si sedeva, gli altri in piedi o in groppa alla bici, a parlare parlare parlare, con immensi ed improvvisi scoppi di stupidèra acuta e conseguente irrefrenabile ridarella. I nostri Grandi, Anna e Pippo-Generale Jr, Teresita, Vittorio e Laura, i genitori di Massimo e Nunzio, sempre insieme anche loro, anche loro a parlare parlare parlare seduti in giardino dentro casa, e la stupidéra e la ridarella loro si mescolava alla nostra. Poi siamo diventati grandi noi, e ci siamo persi come accade alle covate nei nidi. E quasi tutti quei nostri Grandi ora sono lì; uno, il Generale jr, è ancora nella Casa da dove uscivamo con Nonno. Gli altri dormono giù, insieme a Nonno e Nonna, verso Riforano, circondati da campi di meliga e mais.
Foto di/Photo by Samuele Silva – Parole di/Words by Mitì Vigliero.


Ieri pomeriggio ho partecipato al secondo raduno di QuotaZero. Sono stato a diversi raduni ma questo è sicuramente quello ad altitudine più elevata: 1597 metri sul livello del mare; ci siamo infatti ritrovati, circa 100 persone, sulla cima del Monte Antola. Giornata splendida, sole meraviglioso e assenza totale di nuvole; non certo il massimo a livello fotografico ma comunque ottimo per una escursione in montagna. Del raduno ho apprezzato soprattutto due cose: l’età dei partecipanti, davvero bassa per una escursione di montagna, e la presenza di donne, davvero alta per una escursione di montagna.





Per l’assalto all’Antola abbiamo deciso di partire dal paese di Pentema; per arrivare in quota abbiamo attraversato Busalla (niente sosta alla Fabbrica della Birra purtroppo) e Montoggio. Temperatura ampiamente sotto lo zero e brina sul bordo della strada: freddo clamoroso. Partiti da Pentema abbiamo subito sbagliato strada, splendido, e per uscire dai roveti ci siamo visti costretti a disboscare un’ampia zona di macchia mediterranea. Dopo le difficoltà iniziali la strada è diventata ripida ma agevole; lungo l’aspra erta sono passato dal doppio pile con giacca da neve alla maglietta manica corta e viceversa almeno un paio di volte. Caldo, freddo, poi di nuovo caldo, ombra e quindi freddo, di nuovo caldo: un tormento. Nonostante le premesse siamo arrivati facile in vetta e qui abbiamo trovato diverse decine di persone. Cose mai viste. Spumante, spille, magliette, telecamere. Abbiamo conosciuto e parlato con tanta gente; molto divertente il dialogo fra i forumisti: Ma tu che nick sei?





I più attenti si saranno accorti del soggetto protagonista di questo racconto: la prima persona plurale. Ebbene si, mi sono riunito agli amici del gruppo AdessoSpiana.it. Dopo le foto in cima all’Antola siamo scesi al rifugio per goderci il sole e riposare le nostre stanche membra. La terrazza interamente in legno è qualcosa di spettacolare, sole sino al tramonto e panorama mozzafiato. La discesa è stata meno agevole del previsto; mediamente ritengo il ritorno sempre più difficile dell’andata e questo caso, complice la stanchezza, non ha fatto eccezione. L’ultimo tratto era davvero ripido e le mie ginocchia hanno faticato più del consentito; ma noi “scalatori” preferiamo ritenere la discesa troppo facile e adatta a chi non ama la fatica. Un modo come un altro per nascondere la paura di ruzzolare a valle senza freni. Sono arrivato alla macchina decisamente stanco; soddisfatto anche. Una giornata particolare e intensa, assolutamente da ripetere. Magari con la neve.




A Imperia c’è un posto davvero particolare. Ci troviamo ad Oneglia, a due passi dal centro, circa 500 metri da Piazza Dante: il cuore nevralgico e commerciale della città. E’ un parcheggio, almeno sembra. Posso tranquillamente affermare che molti imperiesi, sottoscritto compreso, lasciano qui la macchina per andare a lavorare oppure per un salto sotto i portici. A Sud c’è il mare, ad Ovest il cantiere del nuovo porto, a Est le famose ciminiere e a Nord quella che gli abitanti del luogo definiscono, fra il serio e il faceto, SUPERSTRADA: in realtà è un corso che in una qualsiasi grande città verrebbe definito vicolo, o quasi. Questo parcheggio è cintato con il filo spinato e diversi cartelli “PROPRIETA’ PRIVATA” sanciscono il divieto di accesso; peccato però che il cancello sia spalancato. Dentro troviamo un po’ di tutto: bottiglie, vetri, spazzatura, macchine parcheggiate, gomme, macchine distrutte, con targa e senza targa. A due passi dal centro è davvero uno schifo. Le domande sono: di chi è questo parcheggio? Perché il cancello è spalancato? Se all’interno succedesse qualcosa di spiacevole di chi sarebbe la colpa? Perché viene utilizzata come discarica? Ai posteri l’ardua sentenza…







Le polemiche dedicate al gol irregolare di Trezeguet hanno spostato l’attenzione della stampa e della televisione. Lo spettacolo maggiore allo stadio Olimpico di Torino non l’hanno fornito nè Recoba nè Del Piero (forse Rocchi), ma bensì i tifosi del Toro con una coreografia spettacolare che ha lasciato senza parole tutti i 22 giocatori in campo e non solo. L’impatto scenico è stato qualcosa di magistrale e incredibile: da brividi. Solo chi era allo stadio (purtroppo pochi, stadio di merda!) può aver apprezzato la magia che si è venuta a creare in quei momenti. Io sono rimasto impietrito, estasiato. Bellissimo, meglio di un gol di Rosina.


La diga del Vajont è uno di quei luoghi che restano impressi nella memoria. Lei è li, alta, splendida, un capolavoro di tecnica. Ha assistito, suo malgrado, a una delle tragedie più grandi degli ultimi 50 anni. Quando la osservi rimani come di sasso: non è bella, è solo grande, gigantesca. E’ un simbolo e come tale fa riflettere, fa pensare: simboleggia l’avidità, l’avidità di denaro. Il denaro sopra ogni cosa, superiore al pericolo, più forte della paura. E si spera che questo monumento incolpevole rimanga ancora tanti anni al suo posto, per ricordare. La si definisce tragedia del Vajont, ma il Vajont è l’unico non colpevole. Ci sono passato un paio di settimane fa, volevo vederla, volevo rendermi conto della maestosità. A distanza di quasi 44 anni fa ancora paura: è diventata quasi un’attrazione turistica, ma i turisti rimangono in silenzio, sono tristi. Sono poche le cose che il tempo non cancella: il dolore di questa valle è una di queste.
Prima il fragore dell’onda
Poi il silenzio della morte
Mai l’oblio della memoria