

Qualche giorno fa ho assistito ad una bellissima presentazione di fotografia urbex. E ho voluto subito cimentarmi in questa interessante attività la cui componente fondamentale, almeno per il sottoscritto, è la PAURA. Come prima esperienza non potevo che scegliere il Cesar Palace, una vecchia (ma non troppo) discoteca abbandonata alle porte di Carrù. Ero già stato in perlustrazione da queste parti, ma all’epoca non conoscevo ancora lo stile urbex. Mi sono munito di treppiede, torcia (come da manuale del perfetto Urban Explorer) e ho sconfitto l’atavica paura umana; un po’ timoroso ho resistito circa trenta minuti all’interno (anche troppo): ho perlustrato il locale caldaia, osservato il salone principale, mi sono seduto su un divanetto, ho provato a immaginare come dovesse essere la musica e la vita notturna prima dell’abbandono. Mi sono fatto un selfie nello specchio del bagno delle donne. Ho anche trovato una vecchia rivista del 2009. Poi sono uscito. Ed è stato un po’ come la fine di un film dell’orrore, con una sola piccola differenza: io ero il protagonista.
L’Urban Exploration (spesso abbreviata in urbex), tradotta letteralmente dall’inglese come “esplorazione urbana”, consiste nell’esplorazione di strutture costruite dall’uomo, spesso rovine abbandonate o componenti poco visibili dell’ambiente urbano. La fotografia e la documentazione storica sono ingredienti essenziali di questo hobby e, anche se talvolta esso può condurre allo sconfinamento su proprietà private, non è questa la regola e comunque le intenzioni sono oneste. L’Urban Exploration è anche comunemente indicata come “infiltrazione”; tuttavia alcuni praticanti preferiscono limitare tale denominazione alla sola esplorazione di siti attivi o abitati. Talvolta viene anche chiamata “speleologia urbana” o “arrampicata urbana”, a seconda dei luoghi visitati. Esempi di questa attività sono l’esplorazione di palazzi sia abbandonati che ancora abitati, di sistemi urbani di drenaggio delle acque, di tunnel di servizio, di passaggi sotterranei e simili. (fonte
Wikipedia)

Mi sono addentrato per pochi minuti fra le macerie di Poggioreale, non sono riuscito a resistere e sono dovuto scappare. L’atmosfera è inquietante, il silenzio irreale. Fa quasi paura. Mi è sembrato di violentare il ricordo di chi, nel 1968, viveva in queste case del profondo sud; una sensazione brutta, che si attacca alla pelle e non scivola via. Mi sono sentito in colpa, mi sono vergognato della macchina fotografica. Sono passati quasi 50 anni, ma qui il tempo si è fermato a quel maledetto giorno del Gennaio 1968.





Era la notte tra il 14 e il 15 Gennaio 1968, quando un violentissimo terremoto scosse la terra nella Valle del Belice, tra le province di Agrigento, Trapani e Palermo. 400 morti e quattro centri abitati rasi al suolo. Il comune maggiormente colpito fu Poggioreale, che dopo il terremoto venne abbandonato al suo destino, diventando una vera e propria città fantasma. (Da
Repubblica.it)








Il Magnificat 2015 è un progetto Kalatà (progetti per fare cultura) che prevede la messa in sicurezza del percorso di salita alla cupola del Santuario di Vicoforte per consentire ai visitatori di ammirare la meravigliosa cupola progettata dall’architetto e ingegnere monregalese Francesco Gallo nel 1728. Ho avuto l’onore (e l’onere) di partecipare in anteprima esclusiva (insieme ad altri pochi fortunati e grazie a Più Eventi) ad una visita guidata con circa due settimane di anticipo rispetto alla data di inaugurazione (1 Maggio). E’ stata un’esperienza affascinante: la Cupola del Santuario di Vicoforte è un’opera fantastica, è la più grande al mondo tra quelle di forma ellittica ed è la quinta, per dimensioni, dopo San Pietro in Vaticano, il Pantheon di Roma, la Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze e la cupola del Gol Gumbaz in India.
La poderosa cupola ellittica innalzata dal Gallo, alta 74 metri, lunga 37,15 metri sull’asse maggiore e 24,80 metri sull’asse minore, venne disarmata non senza trepidazione, data l’arditezza della costruzione, tanto che si narra che dovette andare lui stesso a togliere le impalcature, poiché nessuno pensava che una struttura di quel tipo potesse reggere.



La visita è davvero molto impegnativa: per visitare la cupola (da sotto, 32 metri di altezza) si deve passare attraverso un’apertura di soli 40 centimetri (astenersi pance da birra e donne in dolce attesa) mentre per riuscire a salire sopra (75 metri di altezza, 266 scalini) è obbligatorio salire per una scala a pioli che potrebbe creare qualche problema alle persone claustrofobiche. La parte della visita che ho trovato più interessante è quando, dopo la scala a pioli, si arriva sul tetto originale, in coppi, voluto da Francesco Gallo; siccome creava qualche problema di sicurezza, per le abbondanti nevicate della zona, è stato coperto (nel 1883) con una struttura in legno e rame che permette alla neve di sciogliersi e scivolare. La zona fra il nuovo ed il vecchio è caldissima e permette di intravere la forma elittica della struttura. Purtroppo le bellissime didascalie ‘ALLA BALCONATA’ verranno tolte nei prossimi giorni e sostituite con qualcosa di più moderno; ed è un vero peccato perché, nonostante l’aspetto vintage anni 70-80, sono comunque parte della storia di questo meraviglioso santuario.



Per la prima volta (almeno credo) da quando ho aperto questo photoblog (e ormai sono più di dieci anni) pubblico un numero così elevato di foto in un solo post. Ma d’altrocanto si tratta di un reportage e ho guardato poco al lato estetico delle immagini e molto al lato didascalico. Non ci sono foto del Santuario di Vicoforte dall’esterno: non mi interessava, il focus della visita è la salita sulla cupola. E inoltre basta scavare, ho già pubblicato qualcosa un paio di anni orsono.

Sabato ho partecipato all’edizione torinese della Color Run. Mi sono proprio iscritto e ho corso i 5k previsti, mi sono tuffato in mezzo ai colori, ho spintonato e sprintato sul traguardo. Ho corso davvero impiegando circa 27 minuti a percorrere il giro del Valentino; un tempo decisamente lento (5’27/km) ma giustificato dalle fermate, dal traffico e dalle pause colore. L’idea era quella di arrivare all’arrivo e fotografare l’evento, i volti, le emozioni, ma è rimasta solamente un’idea. Difficile prendere la reflex, seppur coperta da una protezione di plastica, e scattare in mezzo alla folla (10.000 persone) con la polvere colorata che piove dal cielo. Mi sono limitato a circa trenta scatti e poi ho deciso di nascondere la macchina foto nello zaino per evitare guai peggiori. Questa è una piccola selezione. Un evento che definire meraviglioso è davvero riduttivo.





Granada è celebre per la sua famosa fortezza. E forse anche per una bellissima canzone di Claudio Villa (città del sole e dei fior). Eppure la prima immagine che ho della città dell’Andalusia è il suo mercato dell’artigianato: in pieno centro, dalla piazza principale della città, si snoda Calle Reyes Catolicos, una via strettissima (dalle mie parti sarebbe un caruggio) stracolma di manufatti (presunti tali) di qualsiasi foggia, forma e colore. Tessuti, borse, scarpe, zaini, vestiti, piccoli souvenirs, oggettistica: di tutto e di più. Sembra di essere nel cuore di Marrakesh. Fotografare è un’impresa perchè la via è davvero stretta e la luce fatica ad arrivare (iso 400, f/4 e 1/15 a mezzogiorno, in Agosto) e soprattutto per l’insistenza dei venditori (tipicamente africana) che appena vedono la macchina.foto provano a venderti, con una certa insistenza, i loro prodotti artigianali. Ho fatto un passaggio molto veloce, non ho comprato niente, ma se passate per Granada un giro è obbligatorio.