
Ho passato un’estate fotografica davvero difficile. Pochissimi stimoli, pochissima voglia di fotografare; ho fatto ricerca e cercato di capire come si muove la fotografia nel 2018. E sono arrivato ad una scoperta (tipo quella dell’acqua calda). La fotografia non si muove, e diventa terribilmente noiosa e nauseante, ogni giorno sempre di più. E’ un moto perpetuo di tutto uguale, di ripetizioni. Sempre le stesse facce nelle stesse pose, e la street sempre uguale, e le case abbandonate, e il tramonto in montagna, i workshop che si rincorrono, gli eventi che tutti scattano uguale, i concorsi che non sanno più cosa inventare. Mi piace definirla fotografia di massa, non riesco a trovare niente che mi interessi in questa fotografia, niente che riesca a suscitare in me quelle che vengono definite, in moto molto/troppo poetico, emozioni.
E questa estate ho detto BASTA, e mi sono lasciato trascinare dalla mia personalissima corrente senza aggiungere un’ulteriore voce a quella del coro (che scaturisce dalla massa). Non so quale direzione prendere, ho solo qualche piccola percezione, ma non voglio interessarmi alla globalizzazione fotografica. Il concetto è che sento la necessità di fotografare per me stesso, senza ricercare il consenso e il plauso degli altri, ma producendo qualcosa di diverso (e al tempo stesso interessante, magari spiazzante). Ansel Adams sosteneva che in ogni fotografia ci fossero due soggetti: il fotografo e l’osservatore. Giusto, quasi lineare. Credo che nel prossimo futuro farò in modo che questi due soggetti convergano nella stessa persona: me stesso. Forse un po’ egocentrico, ma certamente meno ansioso.
Voglio cambiare il modo di osservare e cercare un approccio diverso; è una pretesa ambiziosa (credo) e difficilmente realizzabile. Non è semplice come bere una lattina; andare fuori dal coro senza produrre foto rotonde, sfuocate e senza senso, ma cercando idee e qualità è qualcosa che in tanti provano a realizzare. Ma quasi nessuno riesce e nel 2018 non è solo complicato: è proprio al limite del impossibile. Una via di mezzo fra Ethan Hunt e Multiman (per la serie perle ai porci). Non ho più voglia di vedere sempre la stessa merda (come questa foto che rappresenta la mia personale nemesi). Datemi qualcosa di nuovo. Spengo tutto, spengo le notifiche, accendo la voglia di osservare con gli occhi aperti a unopuntodue. Deve entrare tanta luce e questa luce deve arrivare anche al cervello; il rischio è quello di rimanere abbagliati. Ci vediamo al prossimo tramonto.
L’abitudine lasciala fuori
Perché mi da fastidio vedere nulla di nuovo
Si parla sempre di amore per poi non farlo veramente
– Alessandra Amoroso

Nell’ultimo periodo ho notato che la passione per la fotografia urbex ha iniziato a prendere una strana piega. Almeno questa è la mia sensazione. Quando ho iniziato, senza nemmeno sapere che fosse urbex, ho fotografato luoghi facilmente accessibili e vietati quasi per modo di dire. Ho iniziato dalle Rovine di Poggioreale distrutte dal terremoto del 1968 e rimango convinto che quel tipo di esplorazione urbana sia la più giusta e la più utile. Perché nel mio piccolo ho sempre pensato al reportage di luoghi abbandonati come a una denuncia, a un grido (di dolore) oppure a una memoria del passato. Il mio intento era quello di far conoscere al mondo posti che avrebbero potuto diventare nuovamente importanti: penso al Castello di Beinette, all’ex collegio Salesiano di Peveragno oppure alla devastata Italcementi di Imperia. Luoghi quindi molto conosciuti, ma nonostante tutto lasciati all’incuria e all’abbandono. Nell’indifferenza. Ultimamente ho notato che questo tipo di esplorazione è diventata di serie B, di poca importanza. Quasi banale nella sua semplicità. Nel 2018 è fondamentale essere i primi a scoprire, i primi a pubblicare, i primi a vantarsi. No, questo non è il mio pensiero. Il mio immaginario è dedicato alla fotografia, e dopo alla scoperta/denuncia. Se possibile. E capisco quanto sia difficile resistere alla tentazione di violare qualcosa di ancora inesplorato, oppure quasi inesplorato: ci sono caduto anche io nel tranello, nella frenesia di scoprire. Nella figurina a tutti i costi. Ma credo che ci sia un limite invalicabile, una legge morale. La regola è tangibile e semplice: “Non portare via niente, non rompere niente, non disturbare nessuno. Cattura immagini, lascia solo impronte nella polvere”. Spaccare un lucchetto, forzare una serratura oppure utilizzare una scala per entrare dal terrazzo di una casa disabitata non rientrano in quello che è il mio concetto di urbex. Ci ho pensato molto e non voglio che questo sia il mio tipo di fotografia. Dev’essere abbandono, evidente: tutto il resto è violazione di domicilio. Non è un discorso di legge, è un discorso morale. E non venitemi a dire che tutto è uguale perché non è vero: c’è il bianco, c’è il nero e ci sono tante tipologie diverse di grigio.

Le mie impressioni personali dopo (ma anche durante) la Torino Photo Marathon del settembre scorso erano decisamente positive. Sapevo di aver trovato nove foto interessanti ed ero rimasto piacevolmente sorpreso da come fossero uscite con semplicità, anche immediatezza, dalla mia macchina fotografica. Bellissimo vedere le mie foto esposte all’entrata di iGDLoft, sede della premiazione. Mai però avrei pensato di poter vincere il primo premio assoluto fra quasi 1600 partecipanti (e piazzare due foto nelle finali di categoria). Devo ammettere che mi ha fatto piacere, anche se al momento della premiazione non sono riuscito praticamente a sorridere: forse colpa di quell’orrendo trono rosso sul quale mi hanno costretto a sedere. Certo, esternare emozioni non fa parte del mio bagaglio di esperienze. Ho anche rilasciato un’intervista che spero di non vedere mai. E che spero non veda mai nessuno: per la quantità di inutili baggianate che ricordo di aver raccontato ;-) Quello che mi piace delle maratone fotografiche (era una delle domande) è che sono democratiche (perdonatemi il termine): si parte tutti sullo stesso piano di gioco, il tempo è il medesimo per ogni fotografo e non si può imbrogliare. E credo che questo sia stimolante. Faticoso anche, ma soprattutto stimolante, che pensare in fotografia è sempre terribilmente difficile.



Non ci rendiamo conto del tempo che passa. E’ una delle grandi tautologie della vita; sembra incredibile, ma sono passati 10 anni da quella folle estate del PhotoWalk. Mi vengono i brividi a pensarci. Io, Palmasco (la mente del progetto) e Tambu in giro a raccontare come si fotografa: una videocamera amatoriale, tre fotografi, qualche storia. E stiamo parlando di 2 lustri fa. L’idea non era nostra, lo spunto arrivava da oltreoceano e precisamente da Thomas Hawk e Robert Scoble. Ma in Italia non si parlava ancora di PhotoWalk. Tutto molto amatoriale, certo: problemi con i microfoni, problemi con le riprese e anche problemi con le foto. Ma divertente, terribilmente divertente. Quattro puntate, l’ultima mai andata in onda:
1) Terminal Traghetti e Intro.
2) Bussana Vecchia (con Manuel Stefanolo alle riprese)
3) Alla Vendemmia (con Giuseppe Morchio aka RinkoBoy)
4) Milano di Notte (con Gaia Giordani aka Copiascolla)
Ci sarebbero tanti aneddoti da raccontare, tante storie che si perdono nella memoria del tempo che fu. Sarebbe troppo lungo da ricordare ed è un peccato che tutto questo vada perso. Ho ripreso la foto di copertina del progetto e recuperato come potuto (scattata con cavalletto improvvisato, sulle scale di casa Palmasco, al buio con il 50 F/1.2 a tuttaapertura), ho scaricato quasi tutti i video: purtroppo il primo è andato perso per un problema di permessi con Youtube e non c’è modo di recuperarlo. Mi sono divertito a riguardare le immagini delle nostre avventure e le stupidaggini che riuscivo a dire con convinzione di fronte alla videocamera. Pubblico ancora qualche foto di backstage, inedite. Quelle di Milano rigorosamente senza colore perché la Milano da bere è estremamente monocromatica. Poi c’è il tag PHOTOWALK con tutte le immagini tratte dal nostro girovagare e pubblicate su queste pagine. Eravamo un passo avanti rispetto al mondo della fotografia e mi sento di dirlo con orgoglio nonostante qualche errore e tanta improvvisazione. Tanti che oggi sono fotografi nel 2007 non avevano mai preso una macchina fotografica in mano e noi invece… Ma non esistevano facebook, twitter, instagram e il primo iPhone era solo un’idea nella testa di Steve Jobs. Sono passati 10 anni e sembra un secolo. Guardando le foto di quei giorni devo ammettere che avevo tantissima strada da fare nel mondo della fotografia: ne ho percorsa un bel po’, ma altrettanta (forse anche di più) ne ho ancora da fare. Ma ci siamo divertiti. Che tempi eroici. ;-)










Quando parte un progetto nuovo, quando si prova ad interagire, quando si cerca di creare interesse. Tre amici, un’idea, interessante spero. Dal 9 di ottobre, PHOTOWALK.IT. Impossibile mancare, davvero. Se poi sembriamo tre ricercati… cercate di capire: la foto non l’abbiamo mica fatto noi!!! :)

E’ una domanda difficile. Molto difficile. La stragrande maggioranza delle persone non si ritiene fotogenica. E’ un problema. Molte volte ho dovuto superare la diffidenze del mio soggetto, la risposta è sempre la stessa: “Non sono fotogenica, in foto rimango male”. Un’altra leggenda metropolitana sostiene che i ritratti a sorpresa rimangano meglio delle foto in posa: i fattori sono tanti, ma difficilmente una foto preparata può risultare peggiore di una foto al volo. Perché? Bisogna prima capire di cosa stiamo parlando: cos’è la fotogenia? Quando una persona è fotogenica? Non è un concetto semplice e in realtà non esiste una vera e propria spiegazione; certamente bello non è uguale a fotogenico. Ed è valido anche il discorso contrario.
Fotogenico è quel volto che, congelato in un espressione statica, ferma, conserverà qualità estetiche e presenza molto simili a quelle dal vivo. Risulteranno fotogenici quindi quei volti privi di una particolare qualità espressiva, privi di una mimica facciale particolare. Al contrario un viso instabile, espressivo, bello perché particolare nelle espressioni, se congelato in un solo momento perderà parte della sua bellezza e, probabilmente, verrà catturato in immagini goffe, strane e quindi risulterà poco fotogenico.
Come risolvere il problema? La risposta è molto semplice: scattando tantissime foto, dedicando molto tempo alla ricerca dell’immagine e della posa migliore. Senza arrendersi e senza avere fretta. Il segreto è soprattutto nella pazienza e nel tempo che vogliamo/dobbiamo dedicare alla ricerca, la ricerca di un’immagine statica che possa rappresentare al meglio il viso della persona che abbiamo di fronte. Un altro fattore molto importante è quello psicologico: una persona poco fotogenica (oppure che si ritiene tale perché nessuno le ha mai dedicato tempo) è tendenzialmente in difficoltà di fronte all’obbiettivo. Questo è uno dei motivi che alimenta la leggenda metropolitana di cui parlavo prima: davanti alla macchinafoto diventano impacciate e la loro espressività facciale aumenta, se colte di sorpresa (con un colpo di fortuna) non hanno pensieri strani per la testa e le possibilità di ‘venire bene‘ aumentano.


Come venire a capo della situazione? Ci sono tanti piccoli suggerimenti da seguire, la stragrande maggioranza di tipo psicologico. Tante foto e tanto tempo, come dicevo prima, è sicuramente il consiglio migliore; anche la scelta dell’abbigliamento è fondamentale (generalizzo ma il riferimento a modelle di sesso femminile è chiaro, gli uomini hanno molte più ritrosie a farsi fotografare; chissà poi perché), anche se fotografiamo solo il volto anche intimo e scarpe hanno la loro importanza: sentirsi a proprio agio e magari più eleganti/interessanti aiuta non poco. Poi il bravo fotografo deve capire quali sono i difetti del viso, trovare l’angolazione migliore (naso grande si fotografa dal basso, viso largo si fotografa dall’alto) e coinvolgere il modello/a, instaurare un rapporto di fiducia che al termine del lavoro deve essersi trasformato in amicizia. A me piace molto scattare tantissime foto, a raffica (con il digitale si può), nei primi minuti, prendere una pausa, scambiare qualche parola quindi aprire il vano delle memory card ed inserire la scheda: “adesso iniziamo seriamente”. Spiegare che le prime foto sono sempre orrende e tanto valeva non scattare niente. Questa tattica, anche divertente, elimina una buona parte delle barriere ‘psicologiche’ che si creano fra soggetto e fotografo. E adesso non resta che trovare un soggetto e scattare almeno tre foto interessanti. Almeno tre, sembra facile vero?


Nuok chiude. Nuok, come un bambino pronuncerebbe la parola New York. Non saprei come definirlo: un sito di viaggi, esperienze, condivisioni. E nel mio piccolo ho partecipato anche io, con qualche foto e una piccola intervista datata settembre 2011 (ospite del mese). E mi sarebbe dispiaciuto perdere quell’intervista che riletta a distanza di oltre sei anni mi strappa anche un sorriso: beata ingenuità. Le parole ci sono tutte, le foto no: perché nel tempo sono cambiato (migliorato credo) e, nel 2017, molte non sono più presentabili. A futura memoria.
Samuele è nato ad Imperia nel 1973. Nei primi anni ’90 entra, quasi casualmente, in possesso di una Zenit 122 ed inizia il suo amore per la fotografia. Attualmente vive in provincia di Cuneo e, dopo aver raccontato il suo mare, fotografa le montagne e la neve con la sua Canon EOS 5D. Le sue immagini raccontano di persone e di luoghi, con l’occhio disincantato di chi non ha ancora capito il mondo, di chi pensa di essere l’unico fotografo del pianeta. Tutto quanto pensa e fotografa (pensa poco, dorme meno, fotografa tanto) è pubblicato nel suo PhotoBlog ed ogni foto è raccontata e descritta con la voglia di chi ama davvero l’arte inventata da Joseph Nicèphore Niepce. A luglio ha fotografato l’America turistica, l’America dei Canyon e delle Metropoli. Questo mese vi proponiamo, in esclusiva, dieci immagini del suo viaggio e dieci domande/risposte. Buona visione
Benvenuto su Nuok, Samuele! Ci racconti in breve di te?
Ho il dono della sintesi, ma raccontarmi in breve è davvero un’impresa. Sono alto, mi piace fotografare. Sono sbruffone, razionale, istintivo. Egocentrico. Organizzato. Sono nato sul mare e l’acqua è parte integrante del mio essere, ma vivo in montagna e la neve è diventata un elemento comune. Riesco ad adattarmi a qualsiasi situazione e ho una faccia per tutte le esigenze. Non ho rispetto per niente, ma ho paura di tutto e forse questo non è proprio qualcosa di cui vantarsi. La finzione fa parte del mio DNA, ma quello che le persone percepiscono di me è la capacità di essere sempre positivo e ottimista. Non credo a niente. Forse nemmeno a me stesso. Dormo quasi niente, sogno solo ad occhi aperti (tantissimo).
Che cosa volevi fare da grande?
Non sono mai riuscito ad avere un’idea mia. L’astronauta, il calciatore, il pompiere.
Fotografare per te significa…
All’inizio significava ricordare. In seguito è diventato qualcosa di molto di più. Mi piace l’idea di sorprendere con una foto: è la molla che mi spinge a fotografare.



Sei reduce da un recente viaggio in USA. Che cosa ti aspettavi di trovare prima di partire?
Immaginavo grattacieli altissimi, grandi distese deserte, strade infinite, luci sfavillanti, colori. L’immensità della natura. Sognavo tanti Starbucks e pretendevo succo d’acero e burro di noccioline. Ho trovato tutto.
Quali sono le tre cose che hai trovato nel tuo viaggio che proprio non ti aspettavi invece?
Non mi aspettavo le montagne di spazzatura alle nove di sera a Manhattan, non mi aspettavo di trovare una tenda sopra l’Apple Store di New York e mai avrei creduto morire di freddo a San Francisco (nonostante mi avessero avvisato).
Pare che New York sia una città estremamente fotogenica. Pensi che sia vero?
No, non credo sia vero. New York è molto difficile da fotografare. E’ difficile decifrare la luce, è difficile trovare un angolo interessante. E’ una città che si nasconde e ti opprime (fotograficamente). La sua gente invece è molto fotogenica: non è difficile trovare soggetti interessanti, volti particolari, momenti divertenti. La forza fotografica di New York è tutta nella qualità dei suoi abitanti.



La prima immagine che ti viene in mente se diciamo New York.
Un taxi giallo. New York è la capitale dei taxi: sono ovunque, a qualsiasi ora del giorno e della notte. I padroni incontrasti delle strade e della città.
Che cosa ti ha colpito del tuo viaggio in USA e che importeresti volentieri in Italia?
E’ una domanda difficile. Tutto e niente. La mentalità vincente degli americani, la loro voglia di cambiare le cose. La tecnologia. San Francisco. Starbucks. In USA invece porterei l’igiene e la cucina italiana.
Il tuo è stato davvero un viaggio da sogno. Viaggiando che cosa hai scoperto di te che non sapevi?
Ho scoperto che mi piace fotografare con il grandangolo. Per il resto penso di conoscermi abbastanza bene.
La tua prossima meta.
Il mio sogno resta Boston e i Celtics. Mi piacerebbe tornare per San Patrizio ed entrare al Boston Garden. Ma la mia prossima meta reale è Imperia, qualche giorno di relax in spiaggia, gli amici di sempre e la cucina della mamma.