Ci sono storie che arrivano da lontano e raccontano di caldo, dispetti, avventure, emozioni, distanza geografica e tante altre cose. Torno indietro nel tempo, era la metà di luglio del 2022, una delle estati più calde di sempre e ricordo ancora il fastidio, la tremenda afa che mi attanagliava nel parcheggio di quel supermercato mentre, con il drone, sorvolavo da lontano Villa Grazia. Che poi l’ho sempre chiamata così, non so per quale motivo, ma in realtà il vero nome è Villa Sebregondi, detta La Macciasca. Si tratta di una meravigliosa dimora storica, costruita alla fine del 1700 e che oggi giace vuota, silenziosa, immobile e bellissima.
La famiglia Sebregondi è originaria di Domaso, sul Lago di Como e le prime notizie certe risalgono al 1220, quando Gherardino Sebregondi svolgeva il ruolo di giudice a Colico. Un suo discendente, Giacomo Antonio (1642-1718), figlio di Giambattista (1566-1667), podestà di Colico, si trasferì a Como dove fece costruire il palazzo di San Bartolomeo e accumulò un ingente capitale. La famiglia era une delle più ricche ricche e influenti della zona e nel 1788 il pronipote di Giambattista, Giacomo Antonio Sebregondi (1760-1849), fu riconosciuto nobile dall’Imperial Regio Tribunale Araldico Lombardo. Negli ultimi anni del 18° secolo, Giacomo Antonio fece erigere una villa dove risiedere con la famiglia a Maccio, allora Comune, accorpato nel 1928 a Villa Guardia. La villa, il cui interno era riccamente affrescato e ornato in ogni locale, era chiamata “La Macciasca” dal nome del paese, aveva una scalinata a doppia rampa all’ingresso, tre piani più uno seminterrato, oltre a una piccola corte con una cappella gentilizia.
La villa è ormai vuota, depredata degli arredi, ma custodisce una storia importante e rappresenta quella sensazione di decay che per il sottoscritto è l’Urbex con la lettera iniziale maiuscola. È tutto un susseguirsi di stanze e di colori che permettono di fotografare con razionalità e pulizia, e poi quel divanetto, ormai diventato il simbolo della villa, che è tutto quello che si può chiedere alla fotografia di luoghi abbandonati. Avrei voluto tornare a Villa Grazia, ho provato un paio di volte senza riuscire e alla fine mi sono dovuto arrendere all’evidenza. Villa Grazia è diventata, suo malgrado, un simbolo di tutto quel che dovrebbe essere e che mai diventerà. Salvo complicazioni.
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Dopo oltre dieci anni sono tornato ad ammirare Gianna Nannini dal vivo; l’occasione è stata la tappa torinese del Sei nell’Anima Tour, lunedì 16 dicembre all’Inalpi Arena. È stato un concerto decisamente rock, spettacolare, intenso, con una scenografica straordinaria. L’impatto luci in un concerto è parte fondamentale, anche e soprattutto dal punto di vista fotografico, e nel caso del concerto di Gianna Nannini lo spettacolo luminoso è stato a livello di quello sonoro. Avevo un posto in ottima posizione e ho fotografato con il 70-200 muovendomi pochissimo: mi hanno impedito di andare sottopalco per qualche primo piano, ma anche grazie alla qualità dell’ottica (e alla mia altezza) sono comunque riuscito a trovare 40 foto credo interessanti.
Il live, come previsto, si è rivelato di grande impatto. La scenografia è stata curata nei minimi dettagli da Jordan Bavev per Blearred. Sul palco un meraviglioso disegno di luci oltre che decine di catene di ferro che sono scese dal soffitto incorniciando come una gabbia il muro di led che sullo sfondo accompagnava lo show, restituendo le immagini di una regia dinamica e studiata ad hoc per ogni brano in scaletta.
Nonostante la fotografia sono riuscito a godermi totalmente il concerto, Gianna ha cantato tutte le mie canzoni preferite e soprattutto Ragazzo dell’Europa (che è meglio in versione piano e violino), la preferita di mio papà (e posso dire che abbiamo vissuto una sfida per le vie di Torino). Lo show è iniziato con Ottava Vita, un pezzo non troppo conosciuto, ma che ha un incipit straordinario che conosco a memoria (come tutte le canzoni di Gianna) e che mi ha fatto iniziare subito con un brivido. Poi è stato tutto un susseguirsi di emozioni, non esiste una canzone di Gianna Nannini che non abbia un ricordo legato al passato, mi viene in mente Radio Baccano (1993), ascoltata per la prima volta con walkman e cuffiette sulle scale metalliche dell’università a Genova, Sei nell’Anima (2006), che rimarrà per sempre legata all’inizio di una storia triste e felice, oppure I Maschi (1987) che ascoltavo -all’infinito- con mio papà nella nostra mansarda informatica di Imperia. In qualche momento ho faticato a nascondere le lacrime, chissà, magari non è stata l’ultima volta.
Anche se non te l’ho detto
Con te mi sento in mare aperto
Siamo mano nella mano
Su un futuro ancora incerto
Io voglio te
O te o nessuno
E non finire mai, non finire mai
Di farmi ridere
Io voglio te
E passo e chiudo
Io voglio te, voglio te, voglio te
O te o nessuno
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Quando si parla di discoteche abbandonate il mio pensiero torna sempre ai meravigliosi anni ’90 quando con gli amici, il sabato sera, si passavano le notti in queste meravigliose cattedrali della musica e del divertimento. Che se ci ripenso adesso mi chiedo sempre: “Ma perché?”. Eravamo giovani e con tanta voglia di divertirci. Ed è proprio questo l’errore, in realtà raramente mi sono divertito in discoteca, forse mai. Ma sono altri discorsi, nostalgici, un po’ da boomer, qui adesso si parla di fotografia e di esplorazione urbana.
Il Palladium è una delle tante discoteche abbandonate che possiamo trovare girando per le strade di periferia. Nel caso è inutile nascondere i dati sensibili: è facilmente rintracciabile con una semplice ricerca su Google. La differenza con le altre sale da ballo tanto in voga alla fine del secolo scorso (e in parte nei primi anni di questo) è l’entrata, l’ingresso principale. La parte centrale è del tutto normale: tanti divanetti (ah, i divanetti), tavolini, un paio di bar, la pista da ballo. Ma l’ingresso è molto particolare, ordinato e pulito, con tanti specchi ancora incredibilmente intatti, un divano centrale, le sfere sul soffitto e tre bellissime statue, riproduzioni di celebri opere del passato (fra cui la Venere di Botticelli).
Non ho scattato molte foto, l’entrata è l’unica parte interessante, ma quando sono uscito mi sono voltato indietro e ho dato un’ultima occhiata alle statue, a quell’atrio così particolare, a quel gioco di specchi, e mi sono immaginato la mole di persone in coda per entrare, il freddo che qui è pungente, i ragazzi in attesa di passare una bella serata. Non erano poi così male i mitici novanta.
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Come inviato molto speciale di Igers.Piemonte e Igers.Cuneo ho presenziato (e fotografato) alla preview del GinItaly che si è tenuta a Mondovì nel week-end dell’Immacolata (6-7-8 Dicembre). Il vero festival, che come indica il nome stesso ha aspirazione di carattere nazionale, si terrà a Mondovì dal 31 maggio al 2 giugno 2025; e l’anteprima di questi giorni ha la funzione di avvicinamento al vero e proprio main event (che sarà assolutamente da non perdere).
«Si parla di cultura, non di alcol» specificano subito gli organizzatori.
Io sono riuscito ad essere presente solo nella giornata di domenica, ma devo ammettere che l’evento è stato più che interessante; ho passato quasi tutto il pomeriggio nelle tre stanze dell’Antico Palazzo di Città: tantissimi curiosi, qualche amico, molti bevitori, un gioco di luci non banale (il blu che caratterizza le immagini è il colore ufficiale del festival e delle bacche di ginepro) e una fotografia fra la street e il dettaglio. Ho provato qualche dito di gin, assaggiato tre Gin Tonic e comprato due bottiglie (!): un agrumato e un secco, ma sono regali di Natale ovviamente.
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