Nascosta tra la vegetazione, questa villa abbandonata si staglia come un castello dimenticato. La torre merlata domina il paesaggio, mentre l’interno, quasi completamente devastato, racconta un passato che non c’è più. Appena varcata la soglia di ingresso si nota subito un vecchio frigorifero arrugginito, una delle rarissime tracce di modernità dell’edificio. Appoggiata sulla sua superficie una vecchia bambola con i capelli rosa, sporca e polverosa, sembra essere rimasta ancorata ad un mondo che non esiste più. Il suo sguardo rivolto verso l’infinito è inquietante ed è un biglietto da visita per nulla piacevole, quasi sconcertante nella sua vacuità.
Nonostante l’evidente stato di degrado, una parte della vita mantiene ancora un’immutata bellezza. La scalinata blu cobalto, una delle poche meraviglie intatte, sembra sfidare il tempo. Sono rimasto immobile ad ammirare il clamoroso contrasto del blu che si mescola sapientemente con il dorato dei leoni rampanti. È un’ultima traccia di maestosità, qui senza dubbio si celebrava la grandiosità di una vita aristocratica, elegante e potente.
Devo ammettere che queste foto mi lasciano molto insoddisfatto. La Villa dei Leoni Rampanti è quasi magica nella sua decadenza, ma non sono riuscito a raccontarla come avrei voluto. La luce troppo forte di quel pomeriggio d’autunno mi ha sorpreso e non sono riuscito a bilanciare le ombre e le luci in modo ottimale. Molte immagini sono deludenti, era necessario esporre molto di più verso sinistra, almeno 2 stop, ma gli errori, sempre se siamo in grado di coglierli e comprenderli, possono diventare una lezione per il futuro. Ho aspettato quasi 3 anni prima di convincermi a pubblicare, ma nel frattempo ho imparato molto da quelle maledette finestre.
Non è stato facile raggiungerlo: transenne, rovi, muri pericolanti; ma, varcata la soglia d’ingresso, nella prima stanza siamo stati accolti da una sinfonia di colori, uno spettacolo per gli occhi. Era una struttura fra le più importanti del suo genere: un antico porto sul fiume Arno con annesso casino di delizia. All’epoca il fiume Arno era completamente navigabile e quando fu costruito, all’inizio del 1700, costituiva il punto d’attracco per le imbarcazioni, probabilmente dirette verso Villa Bibbiani, del cui complesso la struttura portuale faceva parte.
In origine l’edificio era circoscritto alla singola partitura del grande arco sormontato da una loggia traforata che inquadrava l’accesso alla villa. Con stratificazioni successive, prevalentemente settecentesche, il complesso si arricchisce di ambienti, pertinenze e decorazioni tese a conferire all’insieme un carattere di vero e proprio luogo di delizia, costruito per il divertimento. Illustri le famiglie fiorentine che hanno posseduto l’intero complesso di Bibbiani attraverso i secoli: dai marchesi Frescobaldi, primi proprietari di Bibbiani fin dal Rinascimento, ai marchesi Ridolfi, tanto per citarne due. Celebre il parco, voluto personalmente da Cosimo Ridolfi (1794 -1865) nel momento in cui acquistò il complesso dai Frescobaldi.
Oggi, il porto mostra segni di un degrado estremo: il tetto è crollato, con coperture temporanee di lamiera e infestazioni di piccioni. L’architettura originale, con il suo corpo centrale rettangolare e aggiunte laterali, conserva ancora tracce di un passato glorioso, come le canalizzazioni, le banchine e le decorazioni in pietra, ma è in netto contrasto con l’abbandono attuale. Le tracce storiche sono ancora visibili vicino al Grande arco dell’Omo, dove una canalizzazione che conduceva al porto è stata interrotta dalla moderna carrabile. Gli affreschi e le decorazioni storiche del porto sono state riscoperte in passato, ma la conservazione di questi elementi è sempre più difficile, complicata da ostacoli burocratici che hanno ritardato qualsiasi tentativo di restauro (si tratta purtroppo di un bene privato). Questo scenario evidenzia l’urgente necessità di azioni concrete per la conservazione e il recupero di un bene culturale che, se perso, rappresenterebbe una perdita irreparabile per il patrimonio storico e artistico del nostro paese.
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Queste immagini di Pompei hanno quasi 3 anni e forse è il momento di pubblicarle. In realtà anche no, ma lo farò ugualmente. Ne ho scelto 21, senza un filo logico, senza un’idea precisa: è stata una visita guidata, ma disordinata, alla ricerca delle storia e dei luoghi più iconici, conosciuti e interessanti. Ci sarebbero tantissime cose da scrivere per raccontare Pompei, ma credo che qualcosa di interessante in rete si possa trovare senza obbligatoriamente aggiungere anche le mie parole. Inoltre la memoria è labile, il tempo tiranno e mi ricordo pochissimo. Potrei parlare di fotografia, ma anche qui rischierei di cadere nel banale. Un suggerimento però mi sento di condividerlo: se decidete di visitare i resti di Pompei fatevi accompagnare da un guida, senza aiuto è difficile capire e comprendere la storia di questo luogo magico.
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Ipogeo significa sotterraneo e questa cosa avrebbe dovuto farmi riflettere/capire. Arrivo davanti a questa piccola chiesetta, sembra interessante, ma noto con dispiacere che la porta è chiusa. L’unica via di accesso è una piccola finestra stretta e verticale (deve avere un nome) e non trovo altra soluzione. Lascio cadere zaino e treppiede all’interno (e non era basso) e provo ad entrare. Non riesco, è davvero strettissima, e inizia a prendermi una specie di panico perché senza entrare non sarei riuscito a recuperare lo zaino. Cerco una soluzione e dopo un paio di tentativi maldestri riesco a infilare una gamba e quindi la testa: sono dentro lanciandomi quasi a peso morto. A quel punto la domanda sorge spontanea: ma Lorena come ha fatto ad entrare? Ma è una domanda al quale troverò risposta dopo.
La piccola chiesa è davvero bella:
è abbandonata da tempo, si capisce che qui nessuno mette piede da chissà quanti anni. La porta è saldata (ecco perché non si apriva). Faccio un giro rapido, scatto qualche foto e mi accorgo che in una piccola stanza laterale ci sono dei gradini. Non mi lascio
intimidire dal buio, accendo la torcia e percorro la scala a chiocciola in discesa. Arrivo in un
antro sotterraneo, ecco perché si chiama Ipogeo: ci sono due stanze, entrambe sormontate da una cupola: nella prima un fascio di luce illumina delle rovine, nella seconda, buttato per terra, si trova una copia del
Trono Ludovisi. Dopo la seconda stanza un piccolo cunicolo porta all’esterno, nel parco. In quel preciso istante mi sono reso conto di essere passato dall’accesso più complicato e ho capito come avesse fatto Lorena ad entrare: dalla porta.
In urbex è sempre buona educazione cercare l’accesso più semplice, magari facendo una perlustrazione completa, se possibile, dell’esterno (ovviamente non sempre è possibile). Purtroppo capita, non di rado, di entrare dalla soluzione più complicata. Recentemente (ieri) sono entrato dalla finestra di un palazzo. (senza troppa fatica in realtà) per poi accorgermi che sul lato opposto le porte del piano terra erano tutte spalancate: sarebbe bastato avere meno fretta. Devo però ammettere che l’entrata nell’Ipogeo rimane la contrapposizione più alta che mi sia capitata: l’accesso normale era una porta completamente spalancata in un parco abbandonato, io ho scelto un passaggio quasi impossibile attraverso una finestra strettissima. Genio del male. :-)