
Il mondo dell’urbex è affascinante anche, e soprattutto, per la sua varietà di esperienze, per i luoghi che possiamo scoprire, per le storie che raccontano. Ci sono tre tipologie principali di esplorazioni urbex, ognuna con le sue particolarità e il suo fascino.
La prima tipologia riguarda i luoghi completamente abbandonati e vuoti, quelli che non contengono più nulla. Si tratta di edifici che sono stati lasciati da tanti anni, vuoti e senza vita, ma il loro fascino consiste proprio in quell’atmosfera di abbandono totale, nel senso di nulla. La seconda tipologia è quella degli spazi che sembrano ancora vissuti, ma sono comunque abbandonati. Questi luoghi sono pieni di oggetti, alcuni lasciati in disordine, ma la maggior parte conservati come se fosse stata appena interrotta la vita di tutti i giorni. Non sono vuoti, anzi, e l’aspetto un po’ borderline dell’urbex esplode proprio qui: sembra quasi di intromettersi nella vita di uno sconosciuto, con l’impressione di una fuga improvvisa oppure di qualcuno che stia per tornare, ma non lo farà mai. Infine, la terza tipologia, che considero la più affascinante, riguarda le ville abbandonate da tantissimi anni ma che raccontano una storia dal passato. Si tratta di case che sono rimaste ferme nel tempo, ma che conservano ancora gli oggetti e le tracce di una vita. Questi luoghi sono come una capsula del tempo: muri decrepiti, tappezzeria scollata, finestre rotte, ma all’interno c’è un mondo che racconta di chi ci ha vissuto. La Casa del Maestro è un esempio perfetto di quest’ultimo tipo di esplorazione.
Quando si entra in un posto come questo si capisce subito che si tratta di un luogo abbandonato. Al primo piano l’ambiente è buio e si respira un’odore di muffa pestilenziale, gli oggetti sono ovunque, il disordine regna sovrano, con stanze devastate che parlano di tempo e di oblio: quasi impossibile riuscire a fotografare. Ma poi, salendo al piano superiore, la situazione cambia. Qui si percepisce chiaramente che la persona che viveva in questa casa era molto religiosa. Ovunque ci sono madonne, libri, oggetti di culto, ma anche tracce di una vita quotidiana che non c’è più. Le finestre sono spalancate, il guano di piccioni è visibile, i muri si stanno scolorendo, la tappezzeria è in procinto di staccarsi. Nonostante la confusione, si respira un fascino particolare.
Le stanze da letto sono una successione di camere piene di oggetti disordinati, sporchi e polverosi, ma allo stesso tempo affascinanti nella loro imperfezione. Tra i tanti libri, uno in particolare mi ha colpito: Le mie prigioni di Silvio Pellico. Questo mi ha fatto sorridere, perché proprio quel giorno, passando in una via che portava il nome di uno degli eroi del nostro risorgimento, avevo raccontato la gaffe di un amico su via S.Pellico: lui l’aveva chiamata, con una certa dose di ignoranza, via San Pellico. E quando sono entrato nella casa e ho trovato proprio quel libro, è sembrato quasi un segno del destino, un momento che potrei definire surreale.
Uscendo dalla Casa del Maestro la sensazione che ho avuto è stata quella di bellezza pura. Un’esplorazione che mi ha restituito la vera essenza dell’urbex: un luogo che è ancora tangibile nel suo abbandono, con quell’atmosfera decay davvero irresistibile. Non sono riuscito a capire l’origine del nome, non ho trovato oggetti con possibili riferimenti alla scuola, ma sicuramente qui viveva una persona di grande cultura. L’insieme delle foto è il risultato di due esplorazioni in tempi diversi e si notano le differenze: aguzzate la vista, ma solo per solutori più che abili.


















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